Al Sud la laurea è sempre più “negata”

Una riflessione sul pamphlet del professor Gianfranco Viesti

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Prima di riportare alcune considerazioni sul pamphlet del professore Gianfranco Viesti, “La laurea negata”, edito recentemente dall’editore Laterza, è opportuno ricordare che l’Italia è fanalino di coda tra i partner europei quanto a numero di laureati, con numeri particolarmente bassi al Sud.

A seguito dell’aumento delle disuguaglianze sociali nel nostro paese, le famiglie meno abbienti sono sempre più estromesse dall’accesso all’istruzione universitaria. La quale, vale la pena di ricordarlo, è uno dei principali fattori di mobilità sociale e, in quanto tale, uno dei mezzi più dirompenti di attuazione dei principi fondamentali di eguaglianza contenuti nella nostra Costituzione. Gli studi universitari contribuiscono alla formazione di una cittadinanza attiva.

Uno dei meriti principali che si possono ascrivere a questo lavoro del professor Viesti risiede nella capacità di scardinare molti luoghi comuni sull’università italiana. Ad esempio: sono davvero troppe le università in Italia, come spesso si sente dire sui media? La risposta fornita dall’autore è: no. Infatti, se si rapporta il numero di istituzioni universitarie alla popolazione di ogni paese l’Italia è addirittura all’ultimo posto, tra i 28 paesi UE. Eppure quel capitale umano sarebbe un fondamentale fattore di sviluppo nei territori dove le università si insediano, come dimostrano i cospicui investimenti in sistemi universitari diffusi sul territorio di Stati Uniti, Germania e Corea del Sud.

È allarmante rilevare che dal 2008 l’Italia ha ridotto di un quinto la dimensione del suo sistema universitario. Eppure, il nostro paese investe una percentuale del PIL significativamente inferiore rispetto a tutti i paesi europei, dove raggiunge il 1,4%. Scopriamo così che dal 2008 gli investimenti italiani in università si sono ridotti del 8%, mentre in Germania si è rilevato un aumento del 42%. A dispetto delle apparenze e delle mendaci o tendenziose narrazioni, il numero dei docenti universitari in Italia rispetto al totale della popolazione è circa la metà rispetto alla media Europea. Ciò si deve anche al cosiddetto blocco dei turnover, ossia la mancata sostituzione dei docenti pensionati nelle università, a causa della penuria di fondi. Viesti fa notare – tristemente – che la carriera universitaria rischia di tornare ad essere possibile solo per i giovani di buona famiglia in grado di sostenersi a lungo, ovviamente con risorse proprie.

Nel frattempo, aumentano, nelle nostre università, i collaboratori della ricerca a vario titolo, che sono passati da 19 mila nel 2003 a quasi 67 mila nel 2013: un’immensa forza lavoro intellettuale, precaria e sottopagata, su cui pure fonda la sopravvivenza un gran numero di dipartimenti universitari. Cosicché, circa un sesto delle ore di insegnamento nelle università italiane sarebbe prestato da docenti non strutturati. L’autore riporta che nelle università del Nord-Ovest tale valore raggiunge un quinto. In Italia, inoltre, tra il 2008 e il 2014 si è verificato un fenomeno del tutto nuovo: mentre altrove aumentavano le immatricolazioni, nel nostro paese queste sono diminuite del 9%. Ma, si badi bene, in modo selettivo, in quanto sono diminuite le iscrizioni da parte dei diplomati degli istituti tecnici e professionali e degli studenti provenienti da famiglie con reddito più basso.

Una serie di fattori contingenti come la recessione economica e l’immagine fornita delle nostre università da parte dei media hanno probabilmente contribuito a generare sfiducia nell’investimento universitario. Senz’altro ha influito l’aumento delle tasse universitarie in Italia del 60% nel decennio 2005-2015 fino a diventare tra le più alte in Europa.

Un’ampia riflessione viene offerta al lettore in merito alle modalità con cui viene valutato il merito degli atenei. Alle contestate modalità di valutazione del merito nelle università, sì affianca l’attribuzione della cosiddetta quota premiale dei fondi ordinari, che ha assunto un peso sempre più significativo, fino a contrastare, secondo l’autore, con gli indirizzi della European University Association, la quale suggerisce di allocare su base premiale solo stanziamenti aggiuntivi rispetto ai normali finanziamenti pubblici. In Italia, invece, potrebbe raggiungere il 30%, finendo per incrementare i divari di dotazioni finanziarie nelle nostre università.

Un’ampia riflessione viene riservata all’area del Mezzogiorno dove, secondo l’autore, le politiche di austerità hanno comportato “un aumento del prelievo fiscale più accentuato e una maggiore contrazione della spesa pubblica”. Si rischia, in sostanza, di mortificare le potenzialità di ripresa e di sviluppo dell’area nel lungo periodo. Eppure costituirebbe un vantaggio per tutto il paese perché, come sottolinea Viesti “lo sviluppo non scende dai ricchi verso i meno ricchi: contrariamente a quanto si è istintivamente portati a pensare è lo sviluppo del Sud che può “trainare” il Nord e non viceversa”.

Nel contesto del Mezzogiorno gli effetti sociali di un incremento del livello di istruzione della popolazione sarebbero molteplici e si ripercuoterebbero anche sullo sviluppo economico dato il ruolo decisivo del capitale umano sullo sviluppo territoriale. Nonostante queste premesse tanto chiare, il governo italiano ha scelto di optare per una riduzione strutturale del finanziamento pubblico degli atenei statali e questo ha comportato un aumento delle tasse universitarie nel Mezzogiorno assai superiore rispetto alla media nazionale, ossia del 90% tra 2006 e 2016, finendo per scoraggiare sostanzialmente le immatricolazioni e favorendo di fatto il fenomeno della migrazione degli studenti verso atenei del Centro-Nord.

Mi piace sposare una delle tante proposte contenute in questo gradevole lavoro di Gianfranco Viesti, ossia la necessità di un investimento pubblico consistente sull’università italiana che ci avvicini alla situazione degli altri paesi europei e che tale investimento debba essere oggetto di deroga alle regole del “patto di stabilità”.

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