I patti scritti possono essere modificati, ma la modifica deve avvenire anch’essa in forma scritta

"Doveri e Diritti": la rubrica settimanale dell'avvocato Francesco Topi da oggi su Basilicata24

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Nei giorni scorsi Caio mi ha domandato se fosse corretto l’importo delle competenze richiestegli da un collega per la difesa giudiziaria prestata in suo favore. Non avendo piena conoscenza dell’attività realmente svolta dal collega, mi sono limitato ad informare Caio della coerenza di quanto domandatogli con quanto liquidato dai magistrati in favore della parte vincitrice (che chiamerò Tizio) nelle sentenze sottoposte alla mia attenzione, in cui Caio era soccombente.

Nel leggere le sentenze la mia attenzione è stata attirata da una circostanza singolare. In sostanza la causa verteva sull’adempimento richiesto da Tizio di un contratto scritto stipulato con Caio. Il difensore di Caio aveva sostenuto le ragioni di quest’ultimo, affermando che i patti contrattuali erano stati successivamente modificati da accordi verbali che domandava di darne prova mediante testimoni. Orbene, il codice civile è chiaro sul punto: i patti scritti possono senz’altro essere modificati, ma per aver valore la modifica deve avvenire anch’essa in forma scritta; diversamente non può essere provata mediante testimoni. Infatti, il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi avevano rigettato la richiesta di prova mediante testimoni e così, sulla base di un principio semplice e assai scolastico, Caio ha perso la causa sia in primo che in secondo grado.

La domanda che mi sono posto ed ho posto è stata: il collega che aveva assunto la difesa di Caio lo aveva subito informato che non aveva alcuna possibilità di difenderlo, mancando la prova scritta della modifica dei patti? Caio ovviamente ha negato d’aver ricevuto tale informazione. Vero? Falso? Non lo sapremo mai. Ma l’occasione è ghiotta per cercare di capire cosa sarebbe dovuto accadere in termini di doveri e di diritti.

Sicuramente l’avvocato di Caio aveva il dovere d’informarlo dell’impossibilità di sostenere in giudizio una tesi (modifica verbale di patti scritti) che, per come stavano le cose, le regole del codice civile sulle prove non consente di dimostrare. Tale dovere ha radici nell’etica comune e in quella professionale in particolare. Il contratto sociale che tutti lega in democrazia, quindi il sistema delle leggi è la traduzione in norme (scritte e non) di quell’etica, di quelle regole naturali portate sul piano giuridico per conferire loro un effetto normativo esterno.

Il R.D. n. 1578 del 1933 dettò le regole sull’ordinamento forense nella visione corporativa propria del regime fascista. Così la regolamentazione del comportamento dell’avvocato per decenni è rimasta affidata a due sole norme del citato Regio Decreto del 1933: l’art. 12 e l’art. 38, Con la prima si domandava agli avvocati “dignità e decoro” nell’esercizio del loro ministero; con la seconda si affidava al procedimento disciplinare presso l’ordine di appartenenza (c.d. giustizia domestica) la valutazione e le sanzione delle violazioni di quelle norme e di non meglio specificati “colpevoli abusi o mancanze”. Salta all’occhio la genericità e perciò la difficile applicabilità di quelle norme ed è facile intuirne le conseguenze in un sistema in cui l’accesso alla professione era fortemente limitato dal numero chiuso.

L’impostazione corporativa dell’ordinamento forense (R.D.) come di tutte le attività lavorative e professionali, a lungo ha frenato la traduzione dell’etico sentire in norme e ha consentito al sistema di resistere alle spinte per una regolamentazione del comportamento dell’avvocato fino al 1997, allorquando il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha approvato il primo Codice Deontologico facendo proprio un testo scritto già dieci anni prima dall’Avv. Remo Danovi. Ma non si arrestò il dibattito tra chi sosteneva che la deontologia e le sue regole avessero un mero valore morale e chi, come appunto Danovi, sosteneva invece che quelle regole avessero pieno valore giuridico. Danovi sosteneva che una cosa è il contenuto delle norme, che può anche essere morale, altro è il loro valore senz’altro giuridico, visto che si trattava di norme inserite nell’ordinamento professionale. In questo senso nei primi anni 2000 si è orientata anche la Corte di Cassazione affermando che le norme contenute nei codici deontologici sono senz’altro norme obbligatorie di diritto oggettivo.

Il principio è stato definitivamente sdoganato con la riforma dell’ordinamento forense operata dalla L. 247/2012 che, all’art. 3, stabilisce che nell’esercizio della professione l’avvocato deve uniformarsi ai principi del codice deontologico emanato dal C.N.F. da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale. Quindi una legge finalmente prevede espressamente un codice deontologico vincolante e indica l’organo dell’ordinamento che deve redigerlo e aggiornarlo; di conseguenza le norme che danno attuazione a quella legge sono a tutti gli effetti giuridiche, oggettive, vincolanti. Ciò significa che, coerentemente al titolo di questa rubrica, a doveri corrispondono dei diritti e conferma la necessità della legge, perché non è sufficiente, per esempio, il divieto e la sanzione dell’omicidio per debellare gli omicidi. Così “nessuna norma imposta dall’alto potrebbe rendere un avvocato dignitoso e indipendente (art. 9), fedele al cliente (art. 10), cosciente e diligente (art. 12), tutore del segreto (art. 13), leale e corretto (art. 19), se questi princìpi non fossero inculcati in lui e in tutto il corpo professionale” (Avv. Antonino Ciavola, Altalex, 17.3.14).

Orbene, alla luce di tutto ciò, torniamo alla vertenza tra Tizio e Caio, ma ancor più al rapporto professionale tra Caio e il suo avvocato. Il Codice Deontologico stabilisce che l’avvocato deve esercitare la sua professione con lealtà, correttezza, diligenza e competenza (art. 9), nell’interesse della parte assistita, consapevole del rilievo costituzionale e sociale della sua professione (art. 10); perciò deve garantire un’attività svolta con coscienza assicurando qualità professionale (art. 12) e competenza (art. 14). Insomma, il rapporto tra avvocato e cliente è fondato sulla fiducia (art. 11). Quindi senz’altro l’avvocato aveva il dovere d’informare Caio della totale debolezza della sua posizione di merito e processuale, sconsigliandogli caldamente la via della causa e proponendogli l’attivazione di un percorso di mediazione (istituto di cui probabilmente parleremo).

Nel caso in cui Caio avesse insistito per sostenere le sue ragioni in sede giudiziaria, l’avvocato avrebbe dovuto fare una cosa sola: rifiutare l’incarico, proprio perché il rapporto è fondato sulla fiducia! Il rispetto di questi doveri da parte dell’avvocato fa sorgere il suo diritto al compenso per la consulenza prestata: a nulla rileva il rifiuto dell’incarico, perché è conseguenza della consulenza prestata al cliente. Il dovere del cliente di corrispondere il compenso è inoltre pressoché indipendentemente dal tempo impiegato dall’avvocato per formare la sua opinione e formulare il responso.

Ma a questo punto, alla luce delle richiamate norme (di contenuto etico) del codice deontologico forense, la domanda sorge spontanea: perché l’avvocato ha accettato l’incarico di Caio e nella causa ha sostenuto l’insostenibile e difeso l’indifendibile? Le risposte potrebbero essere diverse, ma nessuna troverebbe corrispondenza nel Codice Deontologico.

Francesco Topi, avvocato

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