Sud, la scelta autarchica dell’Italia di relegarlo a poco più di un granaio

Il divario con il Nord nel saggio di Emanuele Felice “Perchè il Sud è rimasto indietro”

Le turbolenze politiche che portarono al fascismo avevano stroncato sul nascere un interessante progetto socialriformista proposto da politici del calibro di Francesco Saverio Nitti o Filippo Turati, che pensavano di industrializzare (anche) il Sud, dotandolo di impianti idroelettrici, che avrebbero favorito, oltre la fondamentale energia elettrica, anche azioni di bonifica e controllo delle criticità idrogeologiche. I tecnici a disposizione di un simile progetto, di ispirazione nittiana, come Omodeo e Beneduce, c’erano già. Lo ricorda Emanuele Felice in “Perchè il Sud è rimasto indietro” (Ed. Laterza).

Invece, sin dagli anni Venti, l’Italia virò con decisione verso la scelta autarchica e la negazione stessa della Questione Meridionale, relegando il Sud a poco più del ruolo di “granaio”. La grande crisi internazionale fece il resto. In quegli anni – in cui la percentuale di addetti all’industria scendeva vertiginosamente nel Sud -, cresceva invece il Triangolo Industriale (Genova-Milano-Torino). Esso era già visibile in età giolittiana (anni ‘10) ma vide rafforzare le proprie posizioni negli anni tra le due guerre, grazie agli aiuti dello Stato fascista che, ricorda Felice “lì concentrò i suoi sforzi prima per sostenere la produzione bellica al fine di vincere la prima guerra mondiale, poi per salvare quelle stesse industrie che si erano smisuratamente ingrandite durante il conflitto”. La crescita del divario tra Nord e Sud è chiarissima in questo grafico preso dal testo di Felice. 

Dopo la guerra, come si vede nello stesso grafico, inizia “l’unico segmento della storia d’Italia in cui il Mezzogiorno converge significativamente sul resto del paese” (ibidem).

Poi, dalla crisi energetica in poi (1973) i divari riprenderanno a crescere.

Guardiamola da vicino, allora, questa convergenza: come fu possibile il “miracolo economico”? Nel 1950, la Legge 646 istituisce la Cassa per il Mezzogiorno. Ne avrete senz’altro sentito parlare (malissimo, presumo). Dato che noi non ci accontentiamo della lettura di vulgata, cerchiamo di capire cosa fece, per l’Italia, quell’ente. Quali i propositi? quali i benefici? Quali i punti deboli? Ne parleremo presto, senza pretesa di esaustività (s’intenda).

Prima di lasciarci, alcuni numeri, presi stavolta da “La questione italiana”, di Francesco Barbagallo (Ed. Laterza). “Nel decennio 1955-64, quello del boom, dal Mezzogiorno emigrarono 2,4 milioni di persone, di cui 1,3 milioni si trasferiscono nel Centro- Nord”. Il Pil italiano, in quegli anni, crebbe del 6% annuo, come i grandi paesi industriali europei, trainato dalle industrie. Al Sud, il Pil cresceva come nel resto del paese, del 5% l’anno, nel medesimo periodo. Commenta Baerbagallo, “E l’emigrazione dal Sud, l’arma segreta del capitalismo italiano, contribuì fortemente allo sviluppo intenso del Nord, com’era già capitato al principio del Novecento”.  A proposito di interdipendenza economica tra le aree del Paese.