I Basilischi…in Alto Adige. Omaggio a Lina Wertmüller foto

La regista romana, basilisca d’origine, ha messo, sul piatto d’argento della celluloide, un pezzo raro, un antico Sheffield, di puro stampo italico

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Sui monti, sotto le pendici del Putia, al Passo delle Erbe, verso i “Cinque Santi della Pioggia”, San Giorgio, Santa Maddalena, San Pietro, San Valentino e San Giacomo, paesini magici, quasi svizzeri, come, da Varese, lo sono, Porto Ceresio e Ponte Tresa, con più avanti la vicina Lugano, seduto, rilassato, medito!

Si dice che, quando piove, ai “Santi”, pure più in basso arriverà l’acqua (un po’ come il nostro “Cupolone” di San Pietro), verso la Val di Funes, verso Chiusa: scrivo, alla base del Sass de Putia, la signora delle “Putìe”, dai vasti prati che circondano i vari versanti, (“putìa”, in siciliano, vuol dire negozio”, e i ladini, la lingua dei locali è il Ladino, accentano parimenti la i”, tal che vien fuori “Putìa”).

Mi trovo qui, nel silenzio tonificante della montagna, dove l’erba rugiadosa profuma ancora di taglio e ti rinfresca, dove il verde benevolo e ombroso dei pini ti protegge la vista. E, per gli amanti del film “d’autore”, penso e azzardo un consiglio: riscoprite il film “I Basilischi”, ho avuto l’occasione di rivederlo ieri, in casa di un amico, in vacanza insieme ad Antermoia, piccola frazione di San Martino in Badia. È l’opera prima di Lina Wertmüller, 1963.

Il nome “basilisco” risale a quel rettile che, nel Medio Evo, si diceva, avesse il potere di uccidere, se ti guardava. L’unico modo di disfarsene, era credenza, quello di piantargli uno specchio davanti agli occhi, moriva lui stesso, rimirandosi! Fu pure usato, in senso traslato, per indicare una grossa bocca di fuoco, un grande obice, per esempio. Anche Plinio il Vecchio ne parlava ma non voglio divagare.

I Basilischi, infatti, sono i nativi della Basilicata, tutti dei “piccoli re”, dalla radice greco/latina, come la regista che, pur se romana di nascita, ha origini lucane, da Palazzo San Gervasio.

Il nome fu anche sinonimo di chi si nasconde, non per paura ma perché non vuole essere visto; il piccolo paese, dove sei nato, come quello dove venne girato il film, è il riparo dal Mondo. I tre personaggi chiave, Antonio, Francesco e Sergio, pur se capaci e intelligenti, non hanno uno straccio di ideale, e, come quegli altri basilischi, assumono i loro connotati, ramarri che evitano di comparire, escono allo scoperto solo se c’è il sole, per ignavia, per insofferenza atavica, per indolenza.

Sanno, i virgulti indigeni, che possono essere criticati da coloro i quali, raggiunta l’età della saggezza, quella dell’esperienza, non vorrebbero che i loro discendenti diventassero quei “basilischi” che loro furono, (vedi, al contrario, mi viene in mente, Pupella Maggio, in “Nuovo Cinema Paradiso”, dove, invece, il figlio parte per Roma, “vattìnne, vattìnne, nun ti vogghiu cchiù vìriri”, lo incitava Philippe Noiret, e diventa un grande regista), e per questo li scantonano perché non hanno la forza di staccarsi dalla loro terra.

La Wertmüller, nota per un vezzo, quello delle montature bianche alle lenti da vista, rivela subito il suo genio, scrive e cura la sceneggiatura del film, col montaggio di Ruggero Mastroianni, fratello di Marcello, con un’altra opera prima, all’interno, il leitmotiv, pregevolissimo, di Ennio Morricone.

Il cast contiene personaggi come Stefano Satta Flores, scomparso prematuramente, e Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, che fu amica e compagna di scuola della Wertmüller. Gli attori, tanto sono immedesimati nella parte, che paiono nati in quella sperduta landa”, in quel paesino della Basilicata, in quei primi anni sessanta, dove “lo svago dei poveri”, “ ‘o svago ‘e puverielli ”, era ancora l’unico su cui si potesse contare, dove la stessa aria pareva volesse dormire: ne è esempio pregevole la scena della “controra”, esame analitico del come, (dopo la minestra risucchiata da tutti i membri della famiglia, non si scambiano una parola durante il pranzo, e che si devono.… dire, tutti curvi e riversi verso il piatto, giusto il movimento del collo a raggiungere il cucchiaio, a pelo di brodo, con il capo famiglia, in canotta d’ordinanza e cappello in testa), ci si deve comportare a fine pasto: il “patriarca” va in camera da letto, si sdraia col cappello, dorme, lo raggiunge la moglie che, molto più raffinata, dorme in sottoveste, e si mettono a dormire tutti i membri della famiglia, dormono tutti, nelle case attaccate, nelle casupole limitrofe, (di pregiata fattura coi muri a secco), contigue, staccate di poco le une dalle altre, anche l’”ottimato” notaio, anche il “ceto medio “rappresentato dal farmacista, con la testa appoggiata sul bancone e la… “plebe”, il barbiere semi sdraiato nella poltrona del cliente, non vale la pena chiudere la “locabilità, con questo calore, restammo ccà“!

È sveglia solo la proprietaria terriera, sbarcata qui per matrimonio, non è di queste parti, costretta a far conti, tra mezzadri e masserie, il marito è da tempo scomparso, e lei ha il suo bel da fare. La “controra”, dunque! Non si nega a nessuno, dormono le tre figlie racchie, grasse, cervello vuoto, del farmacista, ma ”si sposeranno, la … ‘farmaceutica rende’, uno straccio di marito lo troveranno”; il problema è per la figlia del “povirazzo”, che non dorme, baffuta, insipida, ignorantella, è però… istruita, legge “Sogno” e “Grand Hotel”, appannaggio in città delle servotte, conosce un suo mondo tutto particolare, un mondo di “Amélie” ante litteram, fatto di eroi inverosimili, di principi azzurri che, arrivati al.….. “Cristo si è fermato a Eboli”, girano i tacchi e sperano nelle Calabrie!

Matera, capitale della cultura, era di là dal divenire….

In questo scenario, assolutamente vero, confermato dal sottoscritto per essere vissuto a lungo nel Sud, ed ancor prima della data d’uscita del film, (conosce “capre e cavoli”, ottimati, campagnoli e ceto medio, ‘bassa forza’ militare e contadini, la cui terra è arsa dalla lava cocente indurita, con l’acqua che scarseggia, con la natura che produce arance e fichi d’India), il film si snoda perfetto, ironico, sarcastico, rappresentando un popolo in stile arabeggiante, svevo, borbonico, aragonese, umiliato e affranto dalla fatalità che tutto muove e.… ferma.

Mirabile l’inizio, la voce narrante, locale nel dialetto, nella controra, con Stefano Satta Flores che “gattona” una vezzosa quanto insulsa ragazza, il.… mercato questo offre!, e dopo tanti appostamenti, non visto, non visti, si decide, “avrà notato, signorina, che è un po’ di tempo che, … inzomma, la noto, vorrei sperare che lei, … inzomma, siccome nutro interesse, spero voglia esaminare la mia richiesta, ah, ci sarebbero pure due miei amici, interessati ad una sua amica cui lei si accompagna...”.

La sdegnosetta, dopo un “embè” quasi indispettito, ma doverosamente ci sta tutto, tutta scena nella scena, “sì, sì, ho preso notizie, lei è un bravo giovine, senza grilli per la testa, studia, va all’università, ci penserò”, (vorrebbe subito esternarsi ma pare brutto, si fa ritrosa e cheffà, al primo che ti ferma.…) “la risposta tra tre giorni”; “chi?, ah, è mia cugina, riferirò, sì, sì, abbiamo notato anche gli altri due, la risposta, sempre qui, il posto è tranquillo”, – lontano da occhi indiscreti (ndr) – “tra quattro giorni”!

All’interno della scena, nella canicola, una scalinata lunga che porta chissà dove: si sente solo il caldo, l’ombra dei muri, il silenzio mosso esclusivamente dal ticchettio delle zeppe basse di lei e dal fruscio della gonna che ondeggia ad ogni passo calcato, a destra e a sinistra, con cadenza, ancora abbastanza lunga, ma sufficiente per far notare che le gambe sono dritte!

È la controra! Le loro parole sono da repertorio, ereditate da padri e nonni, da madri e nonne, semplici, declamate in tono sostenuto, gli atteggiamenti, il dialetto in…. lingua, le abitudini, la vita scorre in discesa, lenta, verso un domani inesistente, tutto fa presagire che tutto continuerà come prima.

La Wertmüller ha reso così, con pienezza e dovizia di particolari, l’atavica stagnazione del Sud, dove, “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, diceva Tancredi Falconieri, nipote del Principe Tomasi di Lampedusa, ne “Il Gattopardo” di Luchino Visconti.

Di pregio, per chiudere, ma tutto il film è “ ‘nu zucchero ”, la “dispensatrice d’amore” locale, arrivata dal Nord, osannata da metà del paese, disdegnata dall’altra, ha fatto quattro figli qui, “vabbè, oramai è parente”!

Dai telefoni bianchi al neorealismo di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini, di Germi, De Santis e Lattuada, si passa, d’un subito, con la Wertmüller, ad un nuovo cinema, fatto anch’esso con poco, ma che rende molto, per il sarcasmo, l’amarezza, l’ironia, la fatalità.

Il consiglio è quindi di rivederlo, gustarne pane e briciole, capire quell’Italia com’era e tutto diventa consequenziale.

La romana Wertmüller, basilisca d’origine, ha messo, sul piatto d’argento della celluloide, un pezzo raro, un antico Sheffield, di puro stampo italico.

Beh, sento tuoni, dai monti lontani, austriaci, dopo la Plose, l’acqua è in arrivo, meglio “schiodare”, smobilitare.

Massimo Marchitto

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