Filazzola: le situazioni glocali

Castel dell’Ovo, Napoli, la mostra del pittore lucano, ben accolta e visitata, con opere dell’ultima maniera, composte fra 2009 e 2017

Sul soppigno, celeste e marino, di Castel dell’Ovo, Napoli ha accolto, in una con le associazioni delle celebrazioni per Matera 2019, la mostra pittorica di Nicola Filazzola (dal 25 gennaio al 20 febbraio 2018), ben accolta e visitata, con opere dell’ultima maniera, composte fra 2009 e 2017.

Filazzola si muove nella linea pittorica italiana, che si dipana da Giotto a Morandi, a cui forse più sono da confrontare questi quadri. Non creda, invece, il visitatore che, di fronte a quel mondo di plastica, a quegli agglomerati di rifiuti d’auto e di gomme, a quelle deiezioni umane, a quelle svuotate bottiglie di plastiche variopinte e a volte spremute come dentifrici esauriti, si possano compiere accostamenti con le linee creative alla A. Warhol, che pure da noi dilaga nelle copie del suo liquame minaccioso, “Vesuvio”, in nero e rosso.

Le ventinove composizioni di Filazzola confermano la sua tesi che la pittura è un’argomentazione con colori, un varco di accesso alla conoscenza, uno strumento con colori spalmati su di uno spazio, con cui si apre la strada visionaria alla raffigurazione della realtà nei termini del mentalismo del pittore, che la trasfigura proprio per adeguarla alla propria verità, al suo interiore sentire, qui mai fotografico né olografico. L’arte è sempre surnaturale.

E’ stato detto che l’opera di Nicola Filazzola vada a collocarsi, anche, nella Nuova Figurazione , di più accanto ai lavori di E. Calabria e, un poco meno, di R. Vespignani che non all’imprendibile C. Levi, con cui pure di rado va civettando, non fosse che per comunanza di storia. In Filazzola il mescolamento dinamico dei colori pone la possibilità di evidenziare una figurazione che, solo dopo una certa attenzione visiva, diventa leggibile.

Dopo la lunga fase dell’impegno civile assolto negli anni Settanta, ecco l’accentuazione dell’ambientalismo, visto che, già prima del 2004, Filazzola ha lavorato sul tema della trasformazione della campagna e della città (meridionale); sul tema della modificazione degli stessi oggetti della mente del pittore. E’ la crisi della domesticazione della cara realtà ( che faceva esplodere C. Baudelaire in “Parigi cambia !”, lì fin dal 1840).

Queste opere, come spesso la bellezza, emergono dall’effimero e dall’impermanenza, che, per contrasto, aspira ad eternizzarsi nell’arte. Ecco le marine offese dai rifiuti (riusciranno i biochimici ad inventare un batterio mangiaplastica?); ecco il tema della ‘Murgia che cambia’, con le ammalianti prostitute ora sdraiate fra accozzaglie ora invitanti baccanti ai fari delle auto, che rinviano al ciclo del mercificio universale finanziario, dentro cui siamo sballottolati. Ecco i prodotti della natura: un mandorlo d’un bianco ben fiorito che emerge dalla composizione marrone e verde; ecco i cardi avviluppati celebrati nei versi di M.Trufelli; ecco la rossa melagrana offerta ambiguamente all’interpretazione.

E poi il visitatore scorre i corpi, le umane presenze: gli amanti confusi , sempre nella parte alta del quadro, mentre nella bassa, con divisione prospettica d’un marrone, si spande un deposito di materiali informi; e poi l’attesa o lo sguardo dalla porta che s’apre al mondo attraverso il vicolo; e ancora le bagnanti agitate come cavalle desiderose di refrigerio; l’ozioso lettore del quotidiano; la malinconia preoccupata della modesta verdurara con esposti peperoni come infanti; ecco la libera serenità di Greta nella sua stanza affollata di giochi; il rituale d’un quieto caffè delle due appagate figure, appena reso problematico dalla testa d’asino che emerge dalla portella e che rinvia, per me, agli spettri di Goya o a quelle capre-demonio del surnaturale don Carlo, un animale che scruta una specie simile, per quanto camuffata.

Le discariche e le “persistenze di persistenze” diventano emblemi del “paesaggio urbano”, la cui alienazione appare incontrovertibile, per un’eccessiva concentrazione di scarpe usate, simboliche per il tutto e rese con vividi colori; di gomme accatastate, dipinte con un nero che è appena temperato da un rosa sporco e spezzato dal bianco diffuso e disperso.

Unici due pezzi in cui fa capolino una malinconiosa nostalgia sono “La casa dell’infanzia” variopinta e deformata e la visione de “I Sassi” in cui il verde delle agavi e coraggiose piante dialoga col marroncino delle tegole delle antiche casette. Di questi incroci (politico-esistenziali) e dissonanze (emotive) si sostanzia la neofigurazione allusiva di Filazzola che possiede un suo linguaggio espressivo, una forza di composizione sussurrata che narra le situazioni d’innesto della storia locale nella tensione della globalizzazione polverosa.

Antonio Lotierzo