Frammenti di un precario. Nei versi di Di Matteo il disagio esistenziale di una generazione

Intervista con il giornalista barese autore del volume edito da Les Flâneurs

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I cosiddetti “corpi intermedi” non hanno tenuto testa alla rapida mutazione delle dinamiche interne al mercato del lavoro. I partiti tradizionali sono stati smantellati o hanno stretto maggiormente il legame col proprio elettorato di riferimento, mentre cresceva il numero dei lavoratori poco o per nulla tutelati. Persino i sindacati hanno manifestato una certa inerzia nel cogliere tempestivamente il dramma di milioni di lavoratori impiegati con contratti privi di tutele e a brevissima scadenza. Resi invisibili alle salvaguardie sociali che invece li dovevano porre al centro dell’attenzione. Soggetti a un’opprimente asimmetria contrattuale che li rende “individui”, pur in mezzo a decine di colleghi in condizioni analoghe. Gli effetti di questa nebulizzazione si sono fatti sentire, in questi anni, sulla famiglia e nella famiglia.

Le donne sono maggiormente colpite in un assetto sociale che, negli intenti generali, le vedrebbe finalmente ambire a parità di trattamento sul lavoro e nelle relazioni interne alla politica e alla società.

Dover cambiare spesso tipologia contrattuale e persino attività demolisce il faticoso lavorio di costruzione della propria identità, ossia della propria percezione nella società. Sorge il dubbio che questi nuovi rapporti di forza non siano sottoprodotti della crisi, bensì oggetto di accurata progettualità. A tal proposito, il sociologo Pierre Bordieu scriveva: «La precarietà infatti s’inserisce in una modalità di dominio di nuovo genere, fondata sull’istituzione di uno stato generalizzato e permanente di insicurezza che tende a costringere i lavoratori alla sottomissione, all’accettazione dello sfruttamento». (P. Bordieu, Oggi la precarietà è dappertutto, in P. Bordieu, Controfuochi. Argomenti per resistere all’invasione neoliberista, trad. it, I libri di Reset, Roma 1999).

Questa condizione di “canne al vento” è stata subita soprattutto a partire dalle generazioni degli ultimi Anni Settanta. Il precariato, da essere una iniezione di flessibilità (esaltata come utile o necessaria), è diventato la norma. Negli anni recenti, persino la filmografia addita comicamente l’affezione per il cosiddetto “posto fisso”. Tragicamente, la gente ride dello smantellamento dei propri diritti. Lucida voce di questa generazione, il giornalista barese Giuseppe Di Matteo ha deciso di esprimere in versi il proprio disagio esistenziale, pubblicando “Frammenti di un precario” con l’editore Les Flâneurs. Prima di introdurre le domande della sua intervista, cito alcuni dei suoi frammenti, quasi pensieri scaturiti davanti allo specchio rotto di questa realtà: “Ci avete illusi / e poi appesi ad asciugare / in un fazzoletto di sole. / Bella senz’anima / la mia generazione”.

Da dicembre è in libreria il suo nuovo lavoro, una silloge molto intensa, “Frammenti di un precario”, edito da Les Flâneurs. Cosa scorre nelle vene di un precario?

«Anzitutto la consapevolezza di vivere in un’epoca nuova. All’interno della quale ciò che un tempo era considerato un momento transitorio dell’esistenza – la precarietà per l’appunto – oggi rischia di tramutarsi in una condizione definitiva. E non mi riferisco soltanto al vulnus del precariato, che ormai sta diventando una vera e propria piaga sociale. Il problema vero è che non siamo più sicuri di nulla. Nemmeno di quelli che una volta erano considerati i baluardi della nostra quotidianità. La famiglia, per esempio. Ci si sposa sempre meno, si fanno meno figli. Basta un nonnulla per sfasciare tutto. Ma anche la scuola. Colpa probabilmente della “deresponsabilizzazione collettiva” di cui parla Massimo Recalcati. Oltre la soglia di casa il mondo ci appare ostile. Al tempo dei miei genitori il motto era: “se ti impegni, otterrai risultati”. Oggi non è più così. E intanto gli anni passano. Spesso invano. “Ci avete illusi/e poi appesi ad asciugare/ in un fazzoletto di sole/ Bella senz’anima /la mia generazione” è un frammento cui tengo molto, perché riassume il canto amaro di una società conflittuale che spesso non promuove il merito, ma i circoli amicali. E così si diventa estranei. Anche a se stessi».

Partire, tornare, restare: al di là della patina dolciastra della retorica, cosa c’è? Cosa rimane? Cosa perdiamo?

«Resta certamente, per quanto mi riguarda, un amore incondizionato nei confronti della mia terra d’origine. Cosa che mi auguro si evinca anche dalla lettura di questo libro. Vorrei però sottolineare un punto fondamentale. Sono tantissime le ragioni che spingono i meridionali ad andarsene. Tutte assolutamente rispettabili. Ma non si parte sempre e solo per costrizione. O per mancanza di lavoro. Nel mio caso, ha prevalso la voglia di mettermi in gioco altrove. Volevo anzitutto esplorare nuovi mondi, culture altre rispetto alla mia. E posso assicurarvi che allontanarsi dalla soglia di casa con questo approccio aiuta. Moltissimo. Si cresce davvero. A volte si ritorna, a volte no. Sono scelte entrambe rispettabili, figlie di un groviglio di motivazioni che non spetta a me giudicare. Certo, so bene che, specie al Sud, l’emigrazione continua a essere un’emergenza nazionale. Che non fa bene al Paese anzitutto, perché si perdono tante teste pensanti che potrebbero farlo crescere in modo più bilanciato. Ammiro anche chi resta. Non è facile. Io, per esempio, vorrei tornare al Nord».

La cultura è una delle soluzioni per i ritardi del Sud, a suo avviso? E la poesia, che ruolo assume?

«“La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”. Mi rifugio in queste bellissime parole di Franco Fortini. La scrittura è terapia, ribellione interiore. E liberazione. Anche per questo, come scrivo nel mio libro, “Di questo tempo attuale/riempio lo spazio blasfemo/di un Uomo svuotato”. Ed è proprio su quello spazio che intendo agire. Ritengo che vada sottratto al torpore che proprio la precarietà contribuisce a causare. Come? A partire dalla cultura. Che forse non cambierà il mondo, ma aiuta a difendersi e, di conseguenza, a vivere meglio. E aiuterebbe tanto anche il nostro Sud. Che, tra l’altro, è sempre stato una fucina di cervelli. Forse dovrebbe imparare a rileggersi un po’».

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