Il Potere si sfida anche con le parole, non a parole

Fare le domande giuste è eretico e causa effetti rivoluzionari. In Basilicata facciamo richieste e nessuna domanda

Non è nella natura delle cose aspettarsi che un ramo trasformato in manganello possa generare fiori o frutti. Ho parafrasato Martin Buber per dire che non è la violenza che può risolvere le controversie o i problemi di chicchessia. Tuttavia, un albero che abbia perso le radici o che stia danneggiando l’ecosistema ad esso prossimo, è nella natura delle cose che muoia. Ed è nella natura delle cose che gli uomini si organizzino per abbatterlo prima che sia troppo tardi. Abbatterlo con la violenza? Magari ricorrendo ad accette o seghe taglienti? No. Quell’albero va aiutato a cadere, creando le condizioni di accelerazione della sua morte che è nella natura delle cose. Per farlo bisogna riconoscerlo, conoscerlo, capirne il funzionamento, la sua evoluzione e le sue infinite trasformazioni invisibili all’istante. Chiusa la premessa.

La domanda da fare al Potere

I sistemi di potere, come tutti i sistemi, si trasformano, si rigenerano, muoiono o mutano nella struttura e nella forma. Hanno una costruzione camaleontica, si adattano ai cambiamenti piccoli e grandi. Hanno la forza e la capacità di appropriarsi delle logiche del mutamento fino a orientarne o a guidarne il percorso verso obiettivi e traguardi desiderati.

Ogni sistema di potere, però, ha un obbligo nei confronti della collettività, il cui adempimento è questione di vita o di morte. L’obbligo di giustificare la propria esistenza. Vale a dire, l’onere di rispondere alla domanda “perché esisti?”

Perché questo obbligo sia rispettato è necessario che qualcuno – l’opinione pubblica, la collettività, le categorie che si oppongono – faccia la domanda e pretendi una risposta.

Se la risposta non convince, non è adeguata, non risulta soddisfacente, quel sistema di potere o quel potere andrebbe abbattuto o cambiato, come nel caso dell’albero. E dunque la domanda richiede un’organizzazione politica della società capace di reagire alla risposta eventualmente ottenuta.

E questo vale per i grandi sistemi quali il capitalismo in Occidente, lo pseudo socialismo e capitalismo di Stato cinese, i comunismi e i totalitarismi diffusi nei paesi africani e sud americani, e vale per i piccoli sistemi locali costituti tra interessi economici, imprenditoriali, politici, finanziari, massonici, giudiziari e così via.

Tuttavia, ottenere riscontri, appare oggi impossibile, poiché nessuno fa la domanda e così il potere si guarda bene dall’adempiere all’obbligo della risposta. Perché – ripetiamo – la risposta richiederebbe una reazione non completamente prevedibile a cui potrebbe corrispondere una contro-reazione basata sulla forza.

Certo, uno dei problemi risiede nella risposta a un’altra domanda. Considerato che il potere è mutevole, articolato, sfuggente, non facilmente identificabile, a volte invisibile, a chi fare la domanda? Un giorno bastava farla al re o al dittatore, o al podestà. Oggi non più.

Tuttavia, ognuno la faccia a qualunque potere incontri nella sua vita: burocrazia, politica, amministrazione della giustizia, imprese, multinazionali, banche, istituzioni locali, e così via.

E perché nessuno fa la domanda? Perché non interessa farla o perché non si ha idea di che cosa significhi farla, o perché semplicemente nessuno sa che bisogna farla o perché si ha paura di farla. Ci sarebbe un’altra ragione.

Soprattutto a livello dei sistemi di potere globali – tipo il capitalismo – esiste una risposta per così dire preventiva, incorporata nell’esistenza dell’apparato, che precede, annullandola, la domanda. La risposta preventiva è: non c’è alternativa.

Questa risposta è penetrata nelle strutture cognitive della società e della politica. La sinistra, per esempio, prova a reagire con un’azione riformista che non minaccia seriamente le fondamenta dei poteri. Tutti gli altri non reagiscono affatto, si muovono con rivendicazioni da condominio nel recinto delle leggi del sistema. Tra l’altro, i “poteri” tra loro non si fanno la domanda.

Mentre l’opinione pubblica e quella vasta parte della società che subisce ingiustizie, abusi, vessazioni, sfruttamento, emarginazione e che rappresenta le “scorie sociali” dei sistemi di potere, è ingabbiata nelle continue impellenti necessità materiali. Le scorie sociali non hanno domande da fare, risposte da esigere, ma bisogni di base da soddisfare e, quindi, non pongono questioni ma fanno richieste. Spesso protestano per ottenere i loro diritti elementari. Il diritto per esempio di non perdere la possibilità di essere sfruttati perché è quella possibilità che gli garantisce la sopravvivenza. Di questi tempi quella possibilità si chiama “mantenere il posto di lavoro”.

Le domande giuste sono rivoluzionarie

La tesi sostenuta in questa riflessione è che l’organizzazione sociale e politica della domanda, al potere, “perché esisti?” potrebbe rovesciare il sistema come accaduto con l’albero. Senza violenza, ma creando le condizioni, attraverso una reazione sociale e politica alla risposta. In un quadro di “insistenza per la verità” che si ottiene, a partire dalla domanda di fondo, con continue altre domande e continue risposte e così via. Innescando processi del tipo la legge di Gresham al contrario: la moneta buona scaccia quella cattiva. Il potere va sfidato con le domande. Fare le domande giuste è eretico e causa effetti rivoluzionari. Il potere non gradisce essere destinatario di domande, preferisce ricevere richieste.

D’Altronde, Gesù è morto per causa della risposta a una domanda. Che cosa sarebbe accaduto se Pilato anziché accontentarsi della prima risposta avesse formulato la seconda domanda? Non lo sappiamo. Sappiamo però che la storia avrebbe seguito un altro corso che, magari, avrebbe portato l’Occidente da qualche altra parte.

 Un salto in Basilicata

Adesso lasciamo da parte i macrosistemi, su cui torneremo con altri articoli, e facciamo un salto in una regione del Sud dove l’organizzazione sociale della domanda “perché esisti?” sarebbe meno complicata. In Basilicata esistono poteri – come abbiamo più volte scritto – identificabili in luoghi, azioni, persone, organizzazioni, più o meno visibili, più o meno percepibili. Le multinazionali dell’energia, il governo regionale, le corporazioni locali di interessi economici e politici, gli enti sub regionali, l’amministrazione della giustizia, la burocrazia locale, e così via.

In Basilicata, accade che i cittadini singoli o organizzati in associazioni anche politiche o culturali o ambientaliste, anziché attrezzare socialmente la domanda “perché esisti?” e preparare la reazione ad eventuali risposte, agiscono fornendo essi stessi risposte. Nessuno fa domande, tutti hanno risposte in contraddittorio da fornire, senza aver formulato domande. Nella maggior parte dei casi si fanno richieste di carattere materiale, si protesta per ottenere qualcosa, per soddisfare un bisogno, per esaudire un desiderio.

La protesta, la critica, la contestazione al potere, sono organizzate intorno alla ricerca di verità e di risposte che non mettono in discussione il sistema, ma lo attaccano senza tuttavia ottenere alcunché. Mettere a nudo “le cose che non vanno” non vuol dire cambiare le cose che non vanno. La Basilicata ne è un esempio. Nei decenni, le cose che non vanno continuano a non andare e a peggiorare. Perché? Perché non facciamo le domande e non pretendiamo le risposte. Perché ci agitiamo nel vuoto e facciamo rumore nel frastuono.

Organizzare socialmente le domande vuol dire tempo, impegno, persuasione, coinvolgimento, partecipazione, coesione, e si configura come pura azione politica.

Per fare richieste, invece, basta un po’ di coraggio o un briciolo di faccia tosta o tanta disperazione, dipende dai casi.

Fornire verità e risposte senza aver fatto domande al Potere – e quindi senza averlo sfidato –  è puro esercizio di vanità.

Il potere che si oppone al potere – come accade nella lotta politica in questa regione – è normale fenomenologia del potere.

Le parole ben organizzate, seguite da un punto interrogativo, hanno la forza di un esercito.