Inaugurazione anno giudiziario, avvocata Stefania Fiore ai colleghi: “Coraggio, resistiamo”

L'intervento del legale alla cerimonia di oggi nel tribunale di Potenza

Riceviamo e pubblichiamo l’intervento dell’avvocata Stefania Fiore del Foro di Potenza all’inaugurazione dell’anno giudiziario tenutasi oggi nel tribunale del capoluogo lucano

“Due circostanze mi hanno indotto a prendere la parola oggi: l’aver letto, sui giornali, le dichiarazioni del Dr. Piercamillo Davigo e l’avere appena riletto “lo Stato siamo noi” di Piero Calamandrei, avvocato, che tutti conosciamo.

Egli, rivolgendosi a quella che adesso verrebbe definita “la società civile” invita a praticare i valori della resistenza avversando, di contro, quelli della desistenza. Dice, infatti, sul punto “ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, essere complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non essere mortale”.

Quella mia di oggi è appunto questo: una oscura resistenza individuale.

Oggi si è parlato di numeri: è in base ad essi che sono stati infatti decisi gli accorpamenti già effettuati e quelli che, temo, si verificheranno in futuro perchè qualcuno, nel chiuso di un Ministero forse troppo lontano, si accorgerà che quei numeri, quelle statistiche, non giustificano la nostra esistenza in vita.

In base ai numeri, dunque, si stabilisce l’efficienza di un Tribunale. Io concentro, invece, le mie banali considerazioni su di un altro aspetto, spesso negletto: la qualità.

Sono espressione del proletariato intellettuale costituito dagli sconosciuti avvocati di provincia che quotidianamente si recano in pellegrinaggio verso i Palazzi di giustizia quali portatori sani (questo è l’augurio) di istanze. Istanze che provengono dal mondo esterno e che, spesso, si infrangono contro questi muri di cemento, non trovando ascolto.

Dietro quei numeri ci sono infatti storie di donne ed uomini, anch’esse sospese, in attesa di definizione, e mi chiedo, sottoponendo ai presenti questo interrogativo: qual è il contributo che noi avvocati diamo al cd. “pianeta giustizia”.

Il Dr. Davigo, magistrato di spicco nel panorama italiano, comunicatore infaticabile, sembra avere le idee chiare, sul punto.

Siamo, a suo modo di vedere, avidi mestatori, cesellatori dell’arzigogolo, sovvertitori della verità fattuale, illusionisti del processo. Produciamo, infatti, inutile contenzioso inceppando il meccanismo giustizia con istanze se non dannose, sicuramente inutili e facciamo sì che i colpevoli (perché di tali si tratta, ovviamente) sfruttino abilmente per il nostro tramite inutili garanzie per ottenere la totale impunità o, al peggio, una blanda ed inefficace risposta punitiva.

E’ dunque questa la qualità del nostro contributo?

La resistenza invocata da Calamandrei ci impone di essere impietosi cercando (se ne saremo capaci) di individuare le cause del nostro declino.

E’ vero: siamo ormai intimiditi, messi all’angolo da difficoltà che sembriamo non essere più in grado di risolvere.

Stentiamo a fare pulizia al nostro interno, accettiamo di sopravvivere svolgendo, a volte, il ruolo di comparse distratte in vicende processuali cui assistiamo con un sentimento di colpevole impotenza; diamo ma non esigiamo rispetto ed, a volte, alcuni di noi, mascherano le proprie deficienze utilizzando le blandizie nei confronti dei magistrati.

Se questi continueremo ad essere, forse con soddisfazione di molti, siamo destinati a soccombere, presto dimenticati, immeritevoli eredi di coloro che ci hanno preceduto e che meglio hanno interpretato la nostra professione.

Il Dr. Davigo si sbaglia sul punto (perché sbagliarsi è possibile e può succedere persino a lui) perchè noi siamo, invece, advocati, “chiamati in aiuto”.

La nostra è una nobile professione: ci facciamo carico degli altrui affanni, ne portiamo il peso, spesso isolati, con l’unico conforto (non essendovene più di altro genere, non di carattere economico, non di considerazione sociale) di essere portatori di libertà e difensori di diritti. Questo è il nostro ruolo, la nostra reale qualità.

Qualità disconosciuta dal Ministro della giustizia che ci definisce “azzeccagarbugli” (pur essendo, egli stesso, avvocato -se pur con idee piuttosto confuse in merito al concetto di dolo e colpa ed a ciò che può essere sacrificato in nome dell’efficienza -quale?- del processo penale), qualità disconosciuta dal Dr. Davigo che mostra, per noi, il più totale disprezzo esprimendo, forse, un sentimento diffuso tra i magistrati, ma non compiutamente esplicitato per motivi di opportunità.

Questo spiega ciò che vedo, quotidianamente, nelle aule di giustizia.

Avvocati anziani seccamente e (spesso immeritatamente) bacchettati da giovani magistrati che confondono autoritarismo con autorevolezza, magistrati che comunicano orgogliosamente, tramite le proprie segreterie, la propria ferma volontà di “non parlare con gli avvocati” (quasi fossimo portatori di una non bene individuabile forma di contagio), magistrati che affiggono, sulle porte dei loro uffici, cartelli in cui si invita a non recare disturbo, in quanto “troppo impegnati” (non rendendosi conto che, in tal modo, recano offesa ai loro stessi colleghi che, quei cartelli, non li espongono, lasciando implicitamente intendere che questi ultimi saranno forse impegnati, ma sicuramente non troppo).

Il Tribunale non è un -non luogo- ed in esso vigono, addirittura con maggior forza, le regole della convivenza civile che impongono mutuo rispetto che, per essere veramente tale, deve essere pienamente reciproco, altrimenti è vuoto ossequio.

Il rispetto veicola l’ascolto, perchè solo riconoscendo pari dignità al proprio interlocutore si è disponibili a valorizzare gli spunti di riflessione, gli elementi di conoscenza che provengono da quest’ultimo.

Quei numeri cui ho accennato in precedenza chiedono solo, per il nostro tramite, che venga loro data una risposta, la più aderente ai fatti, la più meditata, se non si temesse di utilizzare una parola abusata e che ognuno di noi, in coscienza, ha paura di pronunciare, diremmo la più giusta.

Non abbiamo altre pretese nè altri obblighi se non questo.

Per far questo, noi avvocati, non dobbiamo far altro che infonderci l’un l’altro un po’ di coraggio e non desistere.

Come dice Robert Badinter, avvocato, più volte ministro della Giustizia che si è battuto, vincendo, per ottenere l’abolizione della pena di morte in Francia “il coraggio per un avvocato è tutto. Se non c’è, il resto non conta. Tutto è utile all’avvocato: talento, cultura, conoscenza della legge, ma senza il coraggio al momento decisivo rimangono solo parole, frasi che si susseguono, brillano e muoiono”.

Resistiamo.

Stefania Fiore, avvocato Foro di Potenza