Il treno dei bambini: ritratto di un Paese unito dal buon cuore

Viola Ardone racconta con gli occhi del suo Amerigo Speranza la storia di tanti bambini meridionali che nel Secondo Dopoguerra furono salvati dalla fame grazie ad alcune famiglie del Nord

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Si chiamavano treni della felicità perché strappavano i bambini del Meridione alla miseria, regalandogli una seconda possibilità. Lunghi e stretti, come i vicoli chiassosi delle città cui il secondo conflitto mondiale aveva tagliato le gambe ma non la dignità, erano diretti prevalentemente verso l’Emilia-Romagna. Ad attenderli c’erano alcune famiglie, per lo più contadine, che avrebbero dovuto prendere temporaneamente in affido questi figli di un destino disgraziato per “restituirli” ai loro genitori in una veste nuova.

L’idea era frullata in testa al Partito comunista e all’Udi (l’Unione delle donne italiane). Il progetto assunse presto le vesti di una gigantesca macchina organizzativa (e di solidarietà) che non conosceva rivalità né campanili. E così, tra la fine del 1946 e i primi anni Cinquanta, circa 70mila bambini partiti dal Sud (ma anche da altre regioni) vennero salvati dalla povertà e dall’analfabetismo. Alcuni di loro si rimisero in forze e tornarono a casa. Altri invece decisero di restare per sempre con le loro famiglie adottive.

Fino a non molto tempo fa di questa vicenda si era parlato a spizzichi e bocconi. Svettano il reportage di Giovanni Rinaldi I treni della felicità – Storie di bambini in viaggio tra due Italie (Ediesse) e una meticolosa ricerca di Giulia Buffardi dal titolo Il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli. 1946-1954 (Editori Riuniti). Poi è intervenuta la letteratura con lo splendido romanzo di Viola Ardone, che ne Il treno dei bambini, edito da Einaudi (233 pp., 17,50 euro), ha aperto la sua finestra su quel passato, in parte dimenticato, attraverso la storia struggente di Amerigo Speranza, che alla fine del 1946, a soli sette anni, si separa da sua madre e dalla sua Napoli (di cui vengono riproposte alcune cartoline in bianco nero di grande umanità) per essere affidato a una famiglia di Modena.

Quell’esperienza – di cui il lungo viaggio in treno è l’anticamera emotiva – ne cambierà completamente i connotati (e le aspettative). Il ritorno a Napoli di Amerigo è infatti quello di «uno che è andato via», di uno straniero spaesato perennemente in biblico tra un passato di miseria e privazioni (che però non perde mai la sua tenerezza) e un futuro che si presenta come il dolce canto di una sirena, ma a patto di rinunciare a quanto si ha di più caro. La bellezza del romanzo sta nell’equilibrio sottile tra due mondi (la nuova famiglia di Amerigo e quella di prima) che si sfiorano, ma non vengono mai a contatto. L’Italia del secondo Dopoguerra è un Paese ancora in macerie che viaggia a diverse velocità. Modena ha poco a che vedere con Napoli per abitudini, costumi, linguaggio, e sono proprio gli occhi di Amerigo – che ricorda lo straordinario personaggio di Giosuè in quell’autentico capolavoro che è La vita è bella – a regalarci le molteplici sfumature di un popolo che prova a ricostruirsi come può, ma non esita a tendere la mano verso l’altro.

Ma tra le righe del romanzo si legge anche la nostalgia nei confronti di un passato che appare morto e sepolto. Le immagini diventano a colori, ma perdono l’antica poesia. «Era più facile, una volta. C’erano le compagne e i compagni del partito. Oggi non ci sta più niente, chi vuole fare qualcosa lo deve fare da solo, per conto proprio», confida Maddalena (forse il personaggio più bello scolpito dall’autrice) a un Amerigo appesantito dagli anni e da un senso di colpa che lo chiama a un nuovo riscatto, stavolta morale. Napoli è ancora una regina distesa sul mare, ma il mondo alle sue spalle è cambiato. Alla politica e ai suoi grandi ideali si è sostituito il ripiegamento su se stessi. Una ferita che, se possibile, fa ancora più male ripensando all’Italia di allora, che nella bocca dei ritratti magnifici di Ardone ha coscienza di essere un Paese solo.

Viola Ardone e il libro

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