Legambiente: “Altro che svolta green, Eni punta su gas e confinamento geologico della Co2″

"Basta con il greenwashing. Anche in Basilicata serve un piano e investimenti concreti per la riconversione produttiva lontano dal petrolio"

Nel giorno in cui è in programma l’assemblea degli azionisti dell’Eni, Legambiente torna nuovamente a puntare il dito contro l’azienda controllata dallo Stato e nemica del clima.

La strategia di Eni contenuta nel piano di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 si basa sostanzialmente su gas (che è un combustibile fossile) e su confinamento geologico della CO2. Pertanto, nonostante le dichiarazioni dei giorni scorsi del neo-confermato amministratore delegato Descalzi, secondo il quale “l’azienda continua a perseguire con fermezza la strategia di lungo termine coniugando la sostenibilità economica con quella ambientale, per costruire una nuova Eni, in grado di crescere nella transizione energetica fornendo energia in maniera redditizia e, al contempo, ottenendo un’importante riduzione dell’impronta carbonica”, per Legambiente l’azienda è ben lontana dalla svolta green di cui parla.

Non capiamo di quali piano di decarbonizzazione parli Eni – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. – Più che svolta ambientale, abbiamo l’impressione che questa azienda multinazionale continui a guardare al passato investendo soprattutto su idrocarburi. Anche dai dati diffusi a marzo dall’ Eni, noi più che svolta green abbiamo letto di aumento della produzione di petrolio fino al 2023, di un futuro al 2050 sostanzialmente a gas fossile e di confinamento geologico della CO2. Non abbiamo letto del processo per disastro ambientale in Val d’Agri in Basilicata partito da un nostro esposto, della perdita di petrolio per mesi nel pozzo a Ragusa in Sicilia, degli spiccioli destinati alle rinnovabili rispetto a molte altre oil companies”.

Inoltre nell’ultimo anno – con l’entrata in funzione della bioraffineria di Gela – l’Eni ha più che raddoppiato l’importazione di olio di palma e suoi derivati passando dalle 280 mila tonnellate nel 2018 a 700-800 mila nel 2019. “Ricordiamo – continua Ciafani – che per quanto riguarda la vicenda del gasolio “all’olio di palma”, il cosìddetto ENIdiesel+, Eni ha speso milioni di euro in pubblicità per spiegare agli italiani che si trattava di “bio” diesel, un prodotto “green” che fa bene “all’ambiente e al motore”. Ma lo scorso gennaio è stata condannata dall’Antitrust al pagamento di una multa di 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole, in seguito alla segnalazione di Legambiente, Movimento Difesa Cittadino e Transport&Environment. Peraltro Eni è responsabile di circa la metà delle importazioni nazionali di olio di palma. Altro che “green”, l’olio di palma usato nei motori produce – tra deforestazione, coltivazione e combustione – tre volte più CO2 di quanto ne emette, dal pozzo al motore, un litro di gasolio petrolifero. È peggio del carbone. La deforestazione è inoltre causa di perdita di biodiversità e scatena contrasti sanguinosi tra compagnie e contadini indonesiani, e provoca uccisioni di militanti e giornalisti come accaduto recentemente.

“Unica notizia positiva – conclude Ciafani – è la promessa, scritta nella risposta pubblica alle domande di Legambiente, che Eni nell’ambito della sua strategia di decarbonizzazione, azzererà l’utilizzo di olio di palma e derivati entro il 2023, ammettendo di aver investito milioni di euro in bioraffinerie puntando su materie prime sbagliate, come Legambiente sostiene da anni”.

“Una buona notizia, questa, e una prima vittoria – sostiene Antonio Lanorte, Presidente di Legambiente Basilicata – ma pensiamo sia necessario fare molto di più. Per esempio in Basilicata dove Legambiente chiede da tempo l’avvio immediato di un grande processo di graduale dismissione delle attività e di riconversione produttiva verso comparti moderni e sostenibili “oltre” il petrolio, capace di incrementare gli attuali livelli occupazionali, recuperando nel contempo una percezione diffusa a livello locale delle reali potenzialità del territorio”.

“Questa- continua Lanorte – è la vera sfida dei prossimi anni a cui è chiamata l’intera Regione Basilicata e la stessa Eni che, dopo venti anni, dovrebbe cominciare a restituire al territorio almeno parte di quanto, ed è tanto, ha ricevuto da esso. Peraltro non c’è un momento più adatto di quello attuale per imboccare questa cammino. La crisi sanitaria e quella climatica, due facce della stessa medaglia, ci pongono davanti ad un bivio. Ma una delle due strade, quella che continua a perseguire lo sfruttamento del fossile per produrre energia, è senza uscita. Per questo la Basilicata deve definire altre traiettorie di sviluppo svincolate dall’opzione petrolifera ed incalzare Eni su investimenti rivolti alla diversificazione economica, alla sostenibilità ambientale e all’economia circolare, ma senza cedere ad operazioni di greenwashing sul modello del progetto Energy Valley di Eni, per intenderci, vale a dire investimenti (nel caso specifico anche molto limitati sul piano finanziario) articolati in interventi quasi tutti funzionali all’attività del centro Oli Eni: quindi in sostanza un investimento “pro domo sua”.

“Ci vuole bel altro – conclude Lanorte. Servono progetti reali di riconversione produttiva che puntino sulle rinnovabili, sulla bioeconomia e la chimica verde e impegni concreti sotto la regia della Regione Basilicata con il coinvolgimento di portatori di interesse locali, comuni, imprese, mondo della ricerca”.