Il lavoro da casa. L’ultimo passo verso il collasso delle libertà

Smart working. Se ci tolgono gli abbracci moriremo come macchine obsolete

Prima ti dicevano che se non lavori non mangi, e dunque che lavorare è un dovere. E così masse di poveri affamate che rappresentavano una bomba sociale pronta ad esplodere finisce per essere assorbita nello sfruttamento, agli albori della rivoluzione industriale. Infondo la massa operaia l’ha inventata il capitalismo. L’elemosina, da fenomeno “anarchico”, si trasforma in organizzazione industriale. Via dai marciapiedi, tutti nelle fabbriche e nelle miniere.  E immaginiamo quei minatori e tessitori che dopo 14 ore di lavoro non vedevano l’ora di tornare a casa – si fa per dire – una bettola, giacigli per dormire, un fuoco acceso e pane e patate. Quel rifugio domestico, i bambini, la famiglia avevano un ruolo fondamentale nella capacità di sopravvivenza e di resistenza, degli schiavi operai.

Il distacco netto tra il dovere (il frame lavoro) e le ragioni (il frame famiglia) per cui quel dovere era necessario. Dopo aver spremuto masse di donne e uomini, il capitalismo dell’alba si affaccia sull’automazione per arrivare ai giorni nostri ad abbracciare i modelli tecnologici espellendo dai processi produttivi il lavoro umano. Perché è evidente, nella storia, che il capitalismo e i sacerdoti del liberismo cinico e nichilista hanno fatto scempio dell’umanità. E dunque al centro dei processi produttivi non c’è più il lavoro salariato ma la scienza e la tecnica.

Nel frattempo il lavoro da dovere si trasforma in diritto da supplicare, la domanda scarseggia e l’offerta cresce a dismisura. E dunque quelle condizioni di schiavitù che configuravano il lavoro come condizione per mangiare, si trasformano in requisito per consumare, per diventare un membro a pieno titolo della società: un consumatore. E arriviamo al punto in cui il tempo è scansionato dai ritmi del lavoro, la giornata ruota intorno alla centralità del lavoro, le ore libere dipendono dal lavoro, le vacanze dipendono dal lavoro e si studia per lavorare. L’istruzione, l’addestramento, il tirocinio, il master sono in funzione del lavoro e, quindi, del consumo. La cultura non serve.

E così non facciamo più un lavoro, ma siamo un lavoro. A chi giova? All’illusione di libertà e di prestigio degli individui che competono nell’arena del consumismo e ai profitti dei grandi gruppi industriali, finanziari e delle tecnologie. Tutto questo serve a tenerci nel panottico digitale e del consumismo, sotto la sorveglianza seducente del capitalismo di ultima generazione: il peggiore. Siamo in una crisi della libertà mai riscontrata nella storia dell’umanità, tanto grave al punto che masse di individui credono di vivere all’apice delle libertà.

E arriviamo alla psicopolitica digitale che vuole convincerci della miracolosa soluzione dello smart working. Sociologi attempati sono entusiasti di questa soluzione che riduce l’inquinamento, che ci aiuta a conciliare vita professionale e personale, grazie alla maggiore autonomia nella gestione delle coordinate spazio-temporali delle nostre prestazioni lavorative.  E invece no, bisogna opporsi. Essere sempre raggiungibili e disponibili per il datore di lavoro, accentua il conflitto tra il lavoro e la famiglia, fa collassare la propria sfera personale, perché il confine tra lavoro e vita privata scompare. Ed è quello che vogliono: fondere e con-fondere ancora di più lavoro e vita, lavoro e intimità domestica, lavoro e esistenza. Vogliono che tu sia un lavoro, perciò sottoposto alle logiche produttive digitali e al controllo dei guardiani del panottico. Vogliono dematerializzare la tecnologia e materializzare le vite e i sentimenti. Vogliono che il nostro spazio diventi una tana e che noi stessi diventiamo talpe felici. Vogliono farci diventare un numero di protocollo, un certificato di conformità.

Lo smart working non è una soluzione per le nostre libertà, è un veleno per le nostre relazioni, per la nostra esistenza, per il nostro essere umani in relazione. Dobbiamo respingere questa controrivoluzione antropologica che punta a distruggere la già ferita sfera pubblica vitale. Stare in casa a lavoro, uscire di casa per consumare in luoghi dove le relazioni sociali sono fondate sul consumo. No. I luoghi di lavoro, l’organizzazione del lavoro, il rapporto tra lavoro e non lavoro, devono subire un rovesciamento dei paradigmi liberisti e tecnocratici. La vera rivoluzione sarà distribuire con giustizia ed equità la ricchezza prodotta dalle tecnologie, restituire umanità all’esistenza degli uomini e rendere il lavoro uno sforzo creativo alla ricerca della felicità e della libertà da ogni condizionamento materiale. Se ci tolgono gli abbracci moriremo come macchine obsolete.