Il versante onirico della quarantena

La psicologa Alessia Marconcini ha raccolto in un libro i sogni fatti durante la pandemia

“Mi ritrovo dinanzi a uno specchio” (Progedit, 2020) è il libro che la psicologa Alessia Marconcini ha scritto durante la quarantena, raccogliendo la descrizione dei sogni fatti e raccontati da molte persone, a seguito di un appello, diramato sulle reti sociali in Internet. Il libro, che contiene anche delle illustrazioni di Antonio Legrottaglie, riporta un’indagine del versante onirico della quarantena, che ha riportato alla ribalta, senza mediazioni, la paura della morte e il modo in cui siamo in grado di affrontarla. Come ci rivela l’autrice, lo stesso Sigmund Freud non fu esente dall’angoscia della morte: egli stesso perse la figlia Sophie a 26 anni, nel corso di uno degli ultimi focolai della pandemia che fu detta “spagnola”, al termine del primo conflitto mondiale. Con le parole di Jung, Alessia Marconcini ci ricorda poi che “il sogno è un tentativo di farci assimilare cose non ancora digerite. È un tentativo di guarigione”.

Nel testo, i sogni vengono raccontati e subito dopo interpretati, facendo rivivere alcune emozioni e circostanze del lungo periodo della clausura legata alla pandemia. In simboli, i sogni codificano dei significati e in alcuni di essi la pandemia viene vissuta come un’esperienza bellica. Il paragone, a molti, non è piaciuto, ma l’analogia ritorna in molti casi simili e, scrive la Marconcini, “le metafore del nemico da sconfiggere ricorrono nel nostro immaginario e nella comunicazione dei media”. È interessante cogliere, anche in questa intervista, il ruolo dell’informazione nella nostra percezione del mondo.

Quale bilancio emerge, a suo avviso, da questa sua esperienza di scrittura?

L’appello a condividere i propri sogni è nato con l’intento di spronare i lettori a enucleare le emozioni che abbiamo provato e spesso ci hanno accomunato in questo momento così inedito. È stato un po’ come dire: “Non dobbiamo avere timore di dire che siamo spaventati” e il bilancio emotivo che ne ho tratto è che, per quanto prevalente, l’emozione della paura non è stata l’unica a dare coloritura alle nostre immagini oniriche.

Paure ataviche quali quelle dell’avvelenamento e del contagio sono spesso state simbolicamente annegate in immagini di acque cristalline e placide.

Per quanto ricorrenti siano state le fantasie di morte nei sogni di disastri e sciagure, con altrettanta forza si sono manifestate immagini compensatorie di luoghi incontaminati e animali candidi, andando a bilanciare il bisogno di ripresa, di tornare a gioire, di viaggiare.

Quanto aiutano i sogni e la relativa analisi a superare momenti difficili, come quello della clausura?

Accendere un riflettore sui sogni rappresenta un atto di interessamento al mondo interiore, al sommerso che è in ognuno di noi. Non è poi così diffusa l’attenzione spontanea alle proprie produzioni oniriche, quasi come se per alcuni questi aspetti ideativi ed emotivi del funzionamento psichico non facessero parte di sé. Nell’immaginario collettivo esiste una consapevolezza antica, talvolta intrisa di superstizione e credenze magiche, che i sogni possano essere rivelatori di segreti sconosciuti o addirittura predittivi. In un certo senso lo sono ma non perché provengano da chissà dove o da quale entità a noi estranea: il materiale di cui sono fatti i sogni è costituito da immagini simboliche che lo stesso sognatore produce anche se non possiede gli strumenti per codificarle. Nel rielaborare i sogni, scomponiamo immagini, riattualizziamo ricordi, individuiamo emozioni non metabolizzate, rileggiamo attraverso nuove lenti esperienze significative anche se archiviate, formuliamo nuove soluzioni a problemi irrisolti. Anche soltanto raccontando i sogni, l’elaborazione emotiva si arricchisce e sembra farsi più chiara!

Ha rilevato un incremento dei disturbi, conseguenti alla quarantena? Quali sono le fasce sociali o anagrafiche maggiormente colpite?

Lavorare come psicoterapeuta può certamente rappresentare un piccolo osservatorio dei fenomeni sociali nonché uno sguardo privilegiato sulle risposte più o meno adattive che gli individui mettono in campo di fronte alle difficoltà. È forse prematuro parlare già di epiloghi psico-patologici della pandemia ma sicuramente molto è cambiato nei rapporti umani: contatti sociali e comunicazione per molti versi ne hanno risentito, per altri hanno beneficiato di processi di ottimizzazione. Credo che lo stato di necessità e l’incertezza possano averci fatto recuperare l’essenzialità delle nostre esistenze, a meno che accecati dalla paura non abbiamo adottato l’atteggiamento del “si salvi chi può”. Chi ha saputo condividere, ha fatto rete e non è caduto attraverso le larghe maglie dell’isolamento. Da psicologa, resto una grande sostenitrice della condivisione: chi ha saputo raccontare e ascoltare il brutto e il bello di questa esperienza, ne sta certamente venendo fuori più ricco. I più giovani risultano essere stati i più sprezzanti di fronte alla paura che la pandemia ha generato; mentre le persone più avanti con gli anni non sempre hanno potuto contare sulla maturità per affrontare con lucidità i timori più o meno razionali che la paura del contagio ha scatenato. Chi era abituato a lavorare su se stesso ha avuto meno paura della sospensione delle attività e ne ha approfittato per continuare a guardarsi dentro e rivalutare le proprie risorse. Certamente la comunicazione dei media ha contribuito alla diffusione di notizie talvolta terrorifiche, talvolta contraddittorie e questo dovrebbe indurci ad una profonda riflessione su quanto nell’epoca dell’informazione si comunichi troppo ma male.

Copertina libro