Quel sabato di orrore: 40 anni fa l’esplosione alla stazione di Bologna, 85 vittime e 200 feriti

“Dal vestito, riconobbi mia figlia Patrizia, era per terra, stava bruciando”

«Il mio nome è Lia Serravalle. E questa è la mia storia…» Lia era alla stazione di Bologna la mattina del 2 agosto 1980. Antonella Grippo ed io raccontammo il suo dramma nel libro “I silenzi degli innocenti”, una sorta di Spoon River delle vittime del terrorismo. Uscì da Rizzoli nel 2006, dopo anni di complicatissima gestazione. Alle vittime, allora, era negata la parola: non erano invitate a raccontare la loro sofferenza in Tv, e anche nei giornali il diritto di testimonianza era concesso soltanto agli aguzzini, la cui narrazione era il Verbo. Quello fu il primo libro a rompere il silenzio degli innocenti, a raccontare gli anni di piombo da un altro punto di vista. E anche allora non ci fu perdonato di aver infranto uno schema. Fummo accusati di rinfocolare l’odio, quando sarebbe stato meglio un «sano oblìo»

Dal libro “I silenzi degli innocenti”, ecco un brano del capitolo dedicato alla storia di Lia Serravalle:

(…) Proprio quell’estate, Patrizia [sua figlia] si diplomò. Frequentava ragioneria. Il giorno dello scritto, all’esame di Stato, l’aspettai fuori dalla scuola per portarla a pranzo. Erano le 14.15, quando la vidi uscire, bella e sorridente. «Che tema hai fatto?», le chiesi impaziente. Ero stata tutta la mattina a pensare a quale traccia avesse scelto, non mi aspettavo certo che rispondesse: «Quello sul terrorismo».
Mi sembrò una strana scelta. In quel momento non potevo sapere quanto si sarebbe rivelata premonitrice!
Nella prova orale, qualche giorno dopo, commentò “A Silvia”, la poesia di Giacomo Leopardi. «Parla della morte di una giovane ragazza», mi spiegò con garbo, una delicatezza tale da farmi piangere. Ma i figli non conoscono le lacrime delle madri.

Il 15 luglio successivo, un noto negozio di Bari iniziò i saldi. Ci andammo insieme. Patrizia provava vestiti su vestiti, senza riuscire a decidere. Io avrei voluto comprarle tutto il negozio per continuare a vederla sfilare ogni giorno, davanti ai miei occhi, con un vestito diverso. Cariche di pacchi e buste colorate, ci fermammo a prendere un aperitivo al bar. Mentre eravamo lì, sedute, a ridere insieme, vedemmo arrivare una processione. Sentii il cuore stringersi in una cupa premonizione, di fronte a me un crocefisso, dentro di me un presagio di morte. Vidi come un panno nero proprio davanti ai miei occhi, mi sembrava preannunciare un lutto imminente.
«Una di noi due morirà», le dissi.
«Mamma, ma sei impazzita! Se succede qualcosa a te, allora la mia vita è finita.»
«Non ne parliamo se finisce la tua…», le risposi, cercando di sorridere.
Era sempre piena di attenzioni, di gentilezze. Aveva un sorriso aperto, sincero. Il giorno prima di partire per le vacanze estive, tornò a casa sventolando i biglietti per un concerto di Antonello Venditti. Io non volevo andarci ma le fu facile convincermi, a lei credevo sempre. Eravamo come due amiche. La sera, quando rientrammo dal concerto, Patrizia continuava a scherzare, a cantare, a ballare con Sonia, la sorellina. Era un ciclone di vita e sorrisi. Liberava energia.
Un’estate di divertimento e poi, in autunno, la Facoltà di Psicologia: questo era il suo programma.

La sera del primo agosto, partimmo per le vacanze. Si respirava un’atmosfera di festa, avevamo voglia di sole, di estate. Da tre o quattro anni, forse dal 1976, andavamo in vacanza vicino a Modena, a Fellicarolo Sestola. Lì avevamo una nostra comitiva: romani, milanesi, gente simpatica, allegra. Ci incontravamo ogni estate. Avevamo deciso di arrivare a Bologna in treno e di proseguire poi fino a Modena in macchina.
Credevamo che il treno fosse più sicuro, con tutti gli incidenti che succedono sulle strade. Così decidemmo di prendere il Bari-Bologna la sera tardi, caricammo le auto sul treno e partimmo.
Eravamo una tribù: io e mio marito con le nostre due figlie, Sonia e Patrizia, il fidanzato di Patrizia, Franco, mia sorella con un bimbo nella pancia, suo marito e le altre loro due bimbe (Alessandra di quattro anni e Simona di due), mio padre e mia madre, mia suocera di ottant’anni. Insomma un’intera famiglia che si spostava per le vacanze, tutti insieme, come piaceva fare a noi del Sud.

«Patrizia, mi raccomando, attenta a Sonia!», le dissi quando arrivammo alla stazione di Bologna. La piccolina l’avevo soprannominata Pippi Calzelunghe per quel suo carattere vispo, irruente. Un vulcano sempre in attività.
Mia sorella Silvana, come dicevo, era incinta. E quando scendemmo dal treno, il suo primo pensiero fu di andare al bar per la colazione. La piccola Sonia, poi, era stanca e annoiata dal viaggio, voleva giocare a flipper. Portava sempre con sé un topolino di plastica trasparente pieno di monete. Le piaceva tanto vedere la pallina correre da un lato all’altro del flipper. Così ci avviammo verso il bar.

Erano circa le 10 del mattino. I treni in Italia, si sa, non arrivano mai in orario, avremmo dovuto essere a Bologna per le 8.30, ma avevamo accumulato troppo ritardo! Ed ora, era come se una forza ci trattenesse in quella maledetta stazione, continuavamo a gironzolare là dentro mentre avremmo potuto andar via, lontano da lì, subito.
Mia sorella con le sue due bambine, Alessandra e Simona, andavano avanti, verso il bar. Patrizia, con Sonia, le seguivano, a poca distanza. Il ragazzo di Patrizia, Franco, la seguiva a stento, carico di un borsone pesante. Poi, c’eravamo io, mia madre e mia suocera. Gli altri uomini erano andati a prendere le macchine con cui avremmo dovuto arrivare al paese.
Mi fermai a un’edicola per comprare un biglietto della lotteria, chiesi i soldi a mia madre perché non avevo il borsellino con me. Lei si salvò per darmeli e fu la sua salvezza. Sembrava che qualcuno giocasse a scacchi con le nostre vite, un pedone avanza, l’altro muore.

All’improvviso, udimmo un boato terrificante. Restai immobile, pietrificata, vicino all’edicola. In pochi attimi, un fumo nero avvolse tutto, il mondo intorno divenne scuro di polvere. Iniziai a gridare: «Le bambine! Madonna, Madonna, che è successo?». Franco, il ragazzo di mia figlia, mi bloccò e fummo investiti da uno spostamento d’aria. Il pavimento tremava. Alcune persone scendevano nel sottopassaggio e risalivano subito, impaurite. Poi vidi mio padre e mio marito tornare di corsa indietro, verso di noi. Sentimmo qualcuno dire che era esplosa la bombola di gas del bar, ma mio padre aveva fatto la guerra e riconobbe subito il boato della bomba.
Cominciai a correre. Cadevo sui vetri, inciampavo nelle valigie delle persone, a terra un tappeto di oggetti abbandonati. Gridavo, chiamavo: «Patrizia! Sonia! Patrizia! Sonia!». D’un tratto, dal vestito, riconobbi Patrizia, era per terra, stava bruciando…

Oltre alla figlia Patrizia, Lia Serravalle perse nella strage di Bologna anche l’altra figlia, Sonia, e la sorella Silvana. Qualche anno dopo, sopraffatto dal dolore, morì anche il padre. Suicida.

Giovanni Fasanella così, sul suo profilo Facebook, ricorda la strage

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