Spezza il pane, la silloge poetica del drammaturgo Emilio Nigro

L'autore, intervistato da Alessandro Cannavale, discute delle suggestioni emotive della poesia e della figura del poeta

Alessandro Cannavale

Emilio Nigro è un critico di teatro e poeta, drammaturgo. Ha pubblicato, con Eretica Edizioni, la silloge dal titolo “Spezza il pane”. Nell’intervista che segue, Emilio Nigro ci svela la magia e lo stupore che sottendono il percorso dell’ispirazione poetica.

 Come interagiscono tra loro, il poeta Emilio Nigro e la sua poesia? Come convivono?

La poesia è filtro per cui quello che vedo trasmigra dentro. E si trasforma in suoni. In incisioni, in questo caso. Al suono è legato un significato fonetico, più appropriato per la voce. E a ben pensarci, sono tutti termini assonanti a volere dare una definizione a cosa è poesia: voce, suono, canto. La poesia è la commozione per la quale il mondo mi suggestiona, gli occhi lucidi ad un gesto, una scena, un paesaggio prolungato apparentemente comune, quotidiano, che mi fa trasalire. Il poeta vede nell’innocuo, nell’immobile, nell’invisibile, nel silente, nel muto, qualcosa di vivo. Si diceva in antichità, soprattutto nelle civiltà comunitarie misteriche e rituali (la greca o l’egizia o anche l’etrusca, ad esempio) che i poeti (chiamati magòi) emettevano parole suggeriti dalle divinità, si carnificavano strumenti medianici: persone, o personaggi anzi, attraverso cui il dio si manifestava e partecipava alle unioni rituali, quindi mistiche.

Non voglio dire che i poeti siano magici, santi o eroi. Né celebrare e celebrarmi egoticamente.

Spiegando l’interazione tra me e la poesia non posso che parlarne per suggestioni, emotivamente, perché non s’inquadrerebbero mai come elementi scissi. Poeta e poesia sono la stessa cosa. Vecchioni avrebbe detto “vivere come le cose che scrivi”.

Poi c’è il quotidiano. Quello che si deve. Quello che ci si aspetta. Quello che si aspettano gli altri da te, poeta o individuo prima di tutto. Che tu abbia un ruolo, che tu venga identificato.

Ecco, la poesia è non identificazione, ma il canto di ciò che si osserva. Emettere suono attraversati da ogni cosa; Il canto muto delle cose zitte; Le scene dell’umano riviste, reinterpretate, senza presunzione di indicare significato, educazione, modelli, piuttosto per contatto. Un contatto vivido, sensibile. Emettere suoni per commuovere. Per liberare gli altri (e se stessi), per l’effimero eterno di un momento, dalle gabbie dei modelli, dai comportamenti imposti. Per fare bene. La poesia fa bene.

Il poeta non è quello che faccio, ma quello che sono. Ed è una condizione di…prigionia.

“Il poeta è pane fresco, / mordere e sputare”. Sono due versi tratta dalla sua silloge, tratti dalla sezione intitolata “Il mestiere del poeta”. Qual è il mestiere del poeta? Cosa dovrebbe cercare, l’umanità del 2020, nella poesia?

Quando si cerca non si trova niente. Non bisogna cercare nulla. Bisogna essere trovati. La poesia trova in noi cosa in quel momento vogliamo che sia trovata.

I poeti non hanno nessun ruolo. Non si sceglie di esserlo. Si è “toccati”, da una fonte ispiratrice, da un’urgenza, un pianto sgorgante, una gioia da cantare. Si è toccati da un dio, ribadendo cosa dicevo sopra, ma anche in senso di diversità, anche in senso quasi “clinico” a volere parlare dal punto di vista della società borghese e giudicante. Non voglio fare passare l’idea del poeta diverso quindi “fool”, né esecrarmi in una dimensione vittimistica, ma è palesemente una condizione marginale quella del poeta, dell’artista, del creativo, utilizzato dalla società per ludibrio, per intrattenitore.

L’umanità dovrebbe servirsi dei poeti per riconoscere se stessa. Perché qualcuno, al posto di qualcun altro, troppo affaccendato nel quotidiano, ha l’onere (e l’onore) di essere rappresentante dei rappresentati.

Sì, il poeta è pane. Di cui cibarsi. In eucarestia. O per gola.

In un’altra mia poesia della raccolta dico “sono il mare oltre il filo spinato”, l’evasione di un momento. Il poeta è appetibile, come il pane appunto, ma nessuno lo vuole a fianco. Per quello…vanno bene gli imprenditori, i potenti, l’uomo che porta il cibo a casa, chi fornisce garanzie sociali, contrattuali, economiche. Il poeta…fa solo parole. Parole che portano altrove, certo. Canti. Ma per cibarsi d’un momento. E poi sputare.

Ci può raccontare qualcosa della sua ispirazione, del percorso che la porta a “sentire le cose del mondo arrossendo”?

M’ispirano gli occhi della mia cagna; un bambino che ti dice “quando torni?”; le mani affaticate e rugose di mia madre; un sorriso d’occhi che le parole tengono nascosto; la mia terra vista dall’al di là del mare; una donna che dice “dammi un figlio”, per dirne qualcuna…

Non so spiegare l’ispirazione. È come chiedere ad un pittore di spiegare il suo lavoro. Nulla è pianificato. Non si è impiegati d’arte, anche se, essendo un mestiere, prevede progettualità, tecnica, impegno, fatica.

Ma l’essere ispirati è un’altra cosa. È il “duende” di Garcia Lorca. L’animale che dentro divora e vuole uscire.

Nel mio caso cantando. In versi.

Arrossendo.

Emilio Nigro