Il cuore lucano di Georges Brassens: poeta del popolo

Il video omaggio di Antonio Pagnotta al padre di tutti gli chansonnier

Oggi in un mondo buttato a terra da un’epidemia globale, il bisogno di autenticità e di valori umani diventa necessario per sopravvivere.

Georges Brassens, il padre di tutti gli chansonnier con chitarra, cantautore e poeta francese del ventesimo secolo che ispirò la musica italiana dei cantautori, cantava i grandi temi della vita e della morte.

La semplicità di Georges Brassens insieme alla sua autenticità lo hanno reso immortale. Un cantautore che ha praticato l’impegno civile con la poesia, il gusto dello humor e della satira con originalità di scrittura e grande respiro d’umanità hanno contribuito il suo ritorno sui social, tra gli adolescenti. Diretto, chiaro nella sua poesia cantata, il suo stile offre conforto e sollievo a quelli che sono confinati o in quarantena. La paura di morire ridimensiona il nostro ego. Brassens ha imposto la sua libertà di pensiero e di scrittura, non si metteva mai in cattedra ad insegnare come si vive. Semplicemente, viveva.

Dalla biografia di Brassens possiamo capire la forza delle sue parole e quali sono le sue radici.

Brassens nasce a Sète, in Francia, da padre francese e da madre lucana, di seconda generazione in Francia, Elvira Dagrosa figlia di genitori emigrati da Marsico Nuovo, in provincia di Potenza.

Le sue origini lucane sono ormai note, il mio amico fraterno Antonio Infantino, musicista e profondo conoscitore della taranta, mi raccontava delle assonanze sonore di Brassens con la tarantella lucana. E lo stesso Georges raccontava: “Sono cresciuto in mezzo alla musica. Cantava mia madre, cantava mio padre, sul lavoro. A cinque anni sapevo già cinquecentocinquanta canzoni”.

Sète è una bella città sul mare dove si vive bene e si mangia bene. È una città italiana come Marsiglia. Gli italiani l’hanno colonizzata e conservata attraverso i secoli. Eleganza, buongusto e famiglia sono visibili per le strade della città. Il look di Brassens stonava nella sua epoca. Trascurato e grezzo, il suo personaggio non era un prodotto dall’invenzione, ma frutto di una scelta radicale. Quest’uomo ombroso e schivo, ha sedotto la Francia degli intellettuali e quella popolare. Dietro quei baffi e quella pipa c’era la profondità del suo linguaggio: diretto, acuto, senza velleità. Un vocabolario costruito autonomamente, colto, poetico, contaminato dalla parolaccia di strada. Non sopportava le regole dei benpensanti Brassens, erano gli ultimi, con le loro debolezze, i perseguitati dalle ingiustizie, dalle disuguaglianze, la povera gente, quelli con una cattiva reputazione, il suo pantheon di eroi quotidiani. Un esercito di perdenti con i quali condivide un senso di fratellanza.

A rendere unico Brassens non è soltanto ciò che canta, ma il suo stesso personaggio: schivo, lontano da ogni tipo di moda, essenziale, nelle scelte artistiche così come nella vita,

Sostanza prima dell’apparenza. Il bisogno prima del desiderio.

Georges Brassens malgrado la sua fama di essere il più grande cantautore francese, si vestiva come un operaio, viveva il suo quotidiano come un bracciante.

Il Brassens scriveva ne “Les copains d’abord”, che l’amicizia era così preziosa e fonte di vita, ai suoi amici divi, attori famosi o grandi giornalisti come Roger Therond (capo di Paris Match) offriva cibo del proletario.

In una trasmissione televisiva, Lino Ventura, grande attore francese di origine italiana, ha raccontato come Brassens trattava i suoi ospiti quando li invitava a cena. E prima di raccontare diceva sempre: «vi giuro che è vero, si mangia male ma la conversazione è favolosa» salsicce, pane, una scatola di sardine, un’altra di paté con del vino, – du gros rouge – vino dozzinale, economico e senza qualità. La cosa che preferiva Brassens erano i sandwich, Si nutriva così male che si ammalò in modo quasi cronico di coliche nefritiche. E sarà un tumore all’intestino a provocare la sua morte.

Quando andava in tournee, in Francia o nel mondo, si portava un minuscolo bagaglio. Aveva un ricambio per un giorno. In quegli alberghi di lusso, lavava le sue magliette, i calzini e l’intimo ogni sera, cosi li trovava asciutti per l’indomani. Chiudeva l’ultimo bottone delle sue magliette che erano comode senza nessuno ciccheria (chic). Brassens si vestiva per non essere nudo. Non conosceva né il ferro da stiro, né la cravatta. Non era avaro ma l’abbondanza era una straniera. A Brassens dei soldi non importava nulla e il fiume di denaro che entrava nelle sue tasche per due terzi lo dava in beneficenza.

Questa frugalità, questa scelta radicale è l’espressione di un mondo contadino, di operaio. Il suo lusso erano le parole, la poesia, la libertà. Anarchico dichiarato, odiava il conformismo, il clericalismo, la borghesia, da ribelle o da brigante. Disprezzava il lusso. Era il suo lato di contadino lucano.

Questo video è il mio personale omaggio a Georges Brassens che ha portato la poesia nella canzone, la realtà in una fotografia. Ho scelto la Chanson pour l’Auvergnat, perché è un inno alla fratellanza, la sua riconoscenza a Jeanne e a sua moglie per averlo aiutato nei momenti difficili.

«È per te questa canzone, per te, che mi hai accolto senza pretese, che mi hai dato quattro pezzi di pane quando nella mia vita avevo fame. È per te, che mi hai aperto la porta quando le arricchite, gli arricchiti e tutta le gente piena di buone intenzioni si divertivano a vedermi a bocca asciutta… Non era niente di più di un po’ di pane, ma mi ha scaldato il cuore. E dentro la mia anima brucia ancora, come se fosse una grande abbuffata…».

Guardatelo insieme a noi, sembra un contadino di Aliano.

*Fotoreporter