Eni ha subìto un gol su punizione, ma la partita non è ancora conclusa e il campionato è lungo

Il tribunale di Potenza ha sentenziato condanne in primo grado, ma la realtà racconta tutta un’altra storia. I lucani continuano a portare le catene indossandole come gioielli

La multinazionale Eni S.p.A. è stata condannata in primo grado, dal Tribunale di Potenza, per smaltimento e traffico illecito di rifiuti. Il pm che ha condotto le indagini aveva chiesto oltre 100 anni di reclusione per le decine di indagati per i quali chiedeva la condanna. Nell’udienza finale di ieri 10 marzo, il giudice ha condannato una manciata di dirigenti ed ex, per complessivi 5 anni di reclusione, pena naturalmente sospesa. Lo stesso giudice ha condannato l’azienda al pagamento di una sanzione amministrativa di 700mila euro e alla confisca di circa 44,2 milioni di euro, da cui sottrarre i costi già sostenuti per l’adeguamento degli impianti. La stessa azienda dovrà risarcire associazioni e cittadini anche se il giudice non ha previsto la provvisionale, quindi chissà se e quando se ne parlerà.

Il valore simbolico della condanna

Il resto del mondo, da Tecnoparco in poi, è stato assolto o escluso dalle responsabilità. È corretto aspettare le motivazioni della sentenza per una valutazione più completa della vicenda giudiziaria, tuttavia è possibile già oggi fare alcune considerazioni. Partiamo dal presupposto che il giudice avrà motivi ineccepibili a fondamento delle sue decisioni. Tuttavia, il dubbio che le indagini e la produzione di prove a sostegno dell’accusa siano state per così dire debolucce, è legittimo. Appare abissale la differenza tra le richieste dell’accusa e le conclusioni del giudice. Sarà il tempo a decidere quali sviluppi avranno queste considerazioni, anche in relazione alle altre vicende giudiziarie.

Eppure, legittimamente, giungono manifestazioni di giubilo per la condanna, da più parti. Certo è che la sentenza di ieri assume una valenza simbolica importante. Il dubbio, tuttavia, riguarda la sostanza dei fatti, il futuro di questo processo e l’esito dell’altro relativo al disastro ambientale.

Oggi, a conclusione del primo grado di giudizio, non siamo certi che si tratti di una grande vittoria, sul piano giudiziario, dell’ambientalismo, dei media di opposizione alle multinazionali petrolifere, e di tutti coloro che si sono costituiti parte civile nel processo.

Ci sarà il secondo grado di giudizio e forse il terzo. Certamente Eni ha un problema di reputazione che vorrà risolvere ad ogni costo. Non è il denaro che preoccupa il cane a sei zampe, ma la reputazione già picconata per altre vicende giudiziarie nel resto del mondo. E non sappiamo come andrà a finire nei prossimi anni, perché di anni si tratta.

In attesa dell’orizzonte giudiziario c’è da augurarsi che la parte più sana e avveduta della società civile lucana si interroghi su problematiche più avanzate, sottraendosi alle sterili contrapposizioni per affermare primogeniture nella presunta “sconfitta Eni”.

Il valore simbolico della condanna di ieri non venga sprecato in una sorta di camera di compensazione morale e vendicativa: “hanno perso i cattivi e hanno vinto i buoni”. Che non si faccia come quel bambino che salta di gioia per la caramella, ignaro che nel futuro non avrà pane da mangiare. Perché la realtà ci racconta tutta un’altra storia.

I petrolieri sono ancora in val d’Agri e a Tempa Rossa, con le loro tattiche e strategie di profitto. L’economia lucana è più fragile, i giovani emigrano, la criminalità organizzata cresce, l’inquinamento ambientale con i connessi rischi per la salute delle persone procede senza sosta. Il dominio sul territorio e il controllo sociale, delle multinazionali, attraverso la mediazione di alcune istituzioni locali e attraverso il ricatto occupazionale e del denaro, si sono consolidati.

Superare la condizione di rassegnazione

E dunque se non si vuole sprecare quel valore simbolico è sul piano politico che bisogna investirlo, per capitalizzarlo e farne rendita per una “rivoluzione” sociale ed economica che porti la Basilicata su altri sentieri di sviluppo. Non ci sarà alcuna transizione ecologica senza una transazione sociale degli interessi economici. E qui siamo, ripetiamo, in un campo politico in senso vasto, attualmente scoperto, abbandonato, presidiato da nessuno. La sentenza di ieri, è un gol su punizione subito da Eni, il che non vuol dire aver vinto la partita e non sappiamo come andrà a finire il campionato. Sarà necessaria una rinnovata sinergia tra spogliatoio e tifoserie.

Ecco perché bisogna fare sintesi tra le istanze sociali e gli strumenti della politica, tra le minoranze attive nelle battaglie civili e la maggioranza dormiente dei lucani. Alla forza del denaro e del potere dei petrolieri bisognerebbe contrapporre un’energia – “rivoluzionaria” – sociale e politica del territorio e dei suoi abitanti. Energia che, purtroppo, è scarsa. Ma il dato più preoccupante è che quell’energia non viene prodotta nella quantità necessaria, anche perché i mezzi e i modi di produzione sono fragili e precari, a volte maneggiati da cattivi improvvisatori. Anzi, la società civile lucana sembra caduta in una sorta di rassegnazione cronica da un lato e in una sindrome di Stoccolma dall’altro. Superare questa condizione è ormai un’impresa titanica, alla quale tuttavia non bisogna rinunciare.

Alimentare il conflitto

Meno chiasso nell’arena politica e più elaborazione di pensieri strategici, di visioni, di orizzonti. Occorrerebbe anche abbassare il livello della strumentalizzazione e della propaganda. Tutto questo per dire che per combattere i giganti del petrolio non bastano le sentenze dei tribunali che, in fondo, hanno il solo scopo di condannare o assolvere per un reato. Perché il disastro socio-economico, ambientale, sanitario, causato dalle compagnie petrolifere, spesso non ha nulla a che fare con il codice penale, ma ha molto a che fare con le cifre del Potere, del Mercato, del Profitto e con tutto il sistema normativo e politico che le regola e le protegge. Decidere di estrare petrolio in zone antropizzate e a quote montuose, per esempio, non implica un ricorso al codice penale. Decidere un modello di sfruttamento delle risorse naturali anziché un altro ha nulla a che fare con i tribunali. La questione, che ritorna, è politica. Ed è sul fronte politico che tutti i Davide del caso perdono contro Golia. La sponda politica, nel senso largo del termine, e quindi un’alleanza sociale vasta per uno sviluppo alternativo, è inesistente.

Quel valore simbolico della condanna a Eni, sia dunque l’occasione per costruire un fronte politico, non di resistenza, ma di attacco. Loro ci hanno costretti a vivere in una confusione “schizofrenica” nel momento in cui abbiamo dovuto scegliere tra lavoro e salute, tra acqua e petrolio, tra inquinamento e denaro, tra natura e capitale. E dunque, un moto “rivoluzionario” non violento che alimenti un fronte indisponibile a qualunque forma di collaborazione con i petrolieri e con le istituzioni che li appoggiano è un tema degno di riflessione. Loro temono il conflitto con la società lucana e con le comunità locali, ed è quel conflitto che bisogna alimentare, proprio adesso che appare quasi completamente archiviato. Un conflitto fondato sulla contrapposizione tra alternative di sviluppo: tra i loro dividendi e il nostro futuro. E bisogna partire dalla rinuncia alle catene e alle gabbie fornite dai predatori: catene che molti indossano come gioielli e gabbie che molti usano come una casa.