La banalità dello spettacolo che sfascia tutto senza costruire nulla

Certi spettacoli e talk, insistono nella demolizione di quelle piccole certezze e di quei valori residui che ancora resistono all’ondata nichilista e alla cinica mercificazione della vita

Rompere gli schemi senza che nessuno ne proponga altri: destrutturare senza ricostruire o ristrutturare. È quanto sta accadendo da decenni nelle viscere della società italiana. Lo vediamo nel panorama televisivo e dello spettacolo in modo più chiaro. L’immagine, la visibilità, la mercificazione di ogni cosa. Se vuoi stare sulla scena devi dirla o farla grossa, più grossa dell’altro. Altro che società liquida, ormai siamo confusi nel vapore di fenomeni che non sappiamo leggere, capire, interpretare. Il futuro non ci interessa più da quando abbiamo perso il controllo sul presente, il controllo delle nostre vite di persone capaci di autodeterminarsi, di gestire autonomia e responsabilità. Una crisi delle certezze senza precedenti accompagnata dalla frantumazione della complessità. Frantumi che hanno lasciato spazi enormi alle complicazioni. Una società complessa? No, complicata, fatta di vite complicate, di relazioni complicate. Muoiono le parole, le alternative, gli orizzonti, gli ideali: è una crisi cognitiva collettiva. È una crisi dei valori e delle strutture archetipiche dei sentimenti umani.

Allora la risposta è semplificare, superficializzare oppure esagerare linguaggi, espressioni, immagini, apparenze, mercificandoli. Perché la merce, che puoi toccare, ascoltare, odorare, imitare, respingere, disprezzare, desiderare, è accessibile alla percezione di chiunque. E dunque il paradosso di questo tempo è che per semplificare devi esagerare, estremizzare, rompere gli schemi, destrutturare. Con certa cosiddetta musica, certi spettacoli e talk, si insiste nella demolizione di quelle piccole certezze e di quei valori residui che ancora resistono all’ondata nichilista e alla cinica mercificazione della vita.

La risposta alla noia, alle sofferenze, all’estraniazione, alla marginalità, alla sgradevolezza dell’anonimato” è banale tanto quanto la banalità che si vorrebbe sottrarre alla vita e alla sua fastidiosa normalità, nel momento in cui persino la normalità cerca casa.

E questa risposta non usa le parole, il pensiero elaborato, argomentazioni, ragionamenti. Usa l’immagine e l’apparenza, il colpo d’occhio che si ficca nel cervello e nella coscienza. Corrompendoli. Il vestito improbabile, il trucco esagerato, la scena surreale. Tutto si svolge nel vortice dell’ambiguità, dove le parole e la musica sono contorno dello spettacolo. Tutti rincorrono l’originalità che paradossalmente si trasforma in un conformismo grottesco e banale.

Altro che rottura degli schemi, altro che “ribellione e rivoluzione”. Qui si continua a demolire senza costruire. Che Dio salvi Arisa, Orietta Berti e quei pochi altri artisti che hanno cantato a Sanremo.