La Basilicata si salva, forse, se decide di non assomigliare a nessuno: siamo in tempo?

Se l’industria predatoria indica una strada la regione deve dirigersi dalla parte opposta. Le radici sono brace per nuovi fuochi

Sarebbe il caso di ricordare a qualcuno che lo sviluppo, confuso con una improbabile modernità, agganciato a un futuro di ambigui paesaggi tecnologici, potrebbe non essere conveniente per la Basilicata. Avere le fotografie di Dubai sul tavolo mentre si pensa al domani di questa regione, è infantile, oltre che orribile. Immaginare scenari di verde valli hi-tech incastrate negli impianti estrattivi di proprietà delle magnifiche Shell, Eni, Total e sorellastre al seguito, è da ingenui.

Chi si indigna quando la Basilicata è rappresentata dai media come terra di pastori e contadini dovrebbe riflettere qualche minuto in più. Se il mondo gira da una parte l’unica salvezza per la nostra regione è attrezzarsi per dirigersi verso la parte opposta. Se non valorizzi quello che di buono ti rimane, quello che gli altri hanno già perso per assomigliare a Las Vegas o a Dubai, a Sesto San Giovanni o a Marghera, non vai da nessuna parte.

Il pastrano – concedetemi la metafora – non è un indumento da usare a carnevale, è il simbolo di una storia che conserva stimoli di modernità che nessuno coglie. Il cafone non è un personaggio da cabaret, il pastore non è il bifolco ignorante da usare nelle barzellette, sono persone colte di una cultura che non ti appartiene, perciò ne hai bisogno. Lo scenario in cui si innesta il pastrano, la terra in cui si muovono il contadino e il pastore sono quadri di bellezza che bisogna conservare con cura. Quadri che bisogna esporre, animare, offrire al resto del mondo: è da sciocchi nasconderli, quasi a vergognarsi.

Nel frattempo però, c’è il rischio che le sorellastre delle magnifiche multinazionali, e l’ipocrisia modernista di visionari della grandeur, distruggano quel poco di bello che c’è rimasto.

La sfida è mettere a valore (reddito) il pastrano, i pastori, i contadini e i loro scenari sempre più rari. Mettere a valore acqua, sole, paesaggi, cibo, tradizioni, storia e cultura, riti, mulattiere e torrenti. Valorizzare donne e uomini che nel loro piccolo (grande) mondo creativo producono arte, artigianato, cibo e cultura innervati nelle radici di questa terra. E’ questa la vera innovazione, rendere nuovo ciò che appare vecchio e inutile, rianimare continuamente la bellezza rendendola ogni volta sorprendente, originale, meravigliosa, senza strapparle l’anima.

Sono questi gli elementi, la materia, sui cui costruire una visione di futuro e dare un’identità allo sviluppo della Basilicata. Mi ripeto se dico che Matera è un esempio su cui riflettere, errori compresi. Mi ripeto se nomino Colobraro per aver provato a trasformare l’immagine considerata negativa “di quel paese sfigato che porta sfiga” in un’opportunità. Mi ripeto, se dico che la Grancia, Castelmezzano, Pietrapertosa e altri che hanno puntato sull’anima del territorio, sono sulla buona strada: hanno usato le radici come brace viva per nuovi fuochi.

La Basilicata si salva se decide di diventare una nicchia, un’oasi desiderata per tutto l’anno da chi avrà sempre più bisogno di semplicità in un mondo avvinghiato nella complessità. Un arcipelago di scenari, esperienze, emozioni, cercato da chi vorrà avventurarsi nella scoperta della felicità, nell’incontro tra l’esistenza e la vita. La domanda di questo “prodotto” è destinata a crescere: basta vedere come gira il mondo. Importante, ripeto, è che noi si giri dalla parte opposta.

In questo contesto la tecnologia va usata non subìta, va resa funzionale al mantenimento, all’arricchimento, alla diffusione del nostro originale e inimitabile “prodotto”. La tecnologia applicata a questo scopo serve a non museificare tutto quanto andrebbe, al contrario, animato, messo in viaggio, catapultato nel mondo.

Tuttavia, se continuiamo a dar ragione all’industria predatoria, alle loro proposte e promesse di un grande futuro tecnologico e industriale che guarda a modelli di business e di crescita che appartengono ad altri, l’errore è già scritto nell’esperienza di questi ultimi 60 anni.

Certo, la Basilicata non deve fermarsi, non deve restare indietro, né deve sopravvivere nel ricordo di improbabili bei tempi andati, “quando la mucca faceva il latte buono” e “quando agli anziani si dava del voi”. No, la Basilicata deve andare avanti, guardare avanti, ma dalla parte opposta a quella indicata da chi fino ad oggi ha depredato territorio e risorse naturali.

Ed è chiaro ormai che la parte opposta non è andare o tornare indietro, ma il contrario. Facciamo ancora in tempo?