Basilicata. Il sindacalismo militante come motore dell’alternativa all’industria predatoria

Evitare la trappola. Dalla manifestazione del 31 marzo a Viggiano alle potenzialità trasformatrici delle organizzazioni sindacali

Bene fanno i sindacati a chiedere investimenti da parte di Eni sull’ economia green e sulle fonti rinnovabili e un tavolo di confronto con i vertici dell’azienda. Bene fanno a ribadire “la necessità di assicurare nel pieno rispetto della legalità un punto di stabilità tra petrolio, tutela della salute e difesa dell’ambiente”. Per queste ed altre ragioni hanno manifestato il 31 marzo scorso, davanti ai cancelli del Centro Olio di Viggiano.

In questi giorni di rilancio della battaglia sindacale sul fronte petrolifero, una riflessione sarebbe opportuna per capire meglio in quale contesto si muove il sindacato.

Partiamo subito da un dato inconfutabile: non esiste alcun punto di stabilità, quindi di compatibilità, tra petrolio, salute, ambiente. Questo slogan sarebbe da evitare, perché fondato su una pura illusione. Basta osservare quanto accaduto, in Basilicata, in questi 30 anni di attività estrattive. E se questo non fosse sufficiente verrebbe in soccorso un’ampia letteratura scientifica in materia.

L’inquinamento per molti lavoratori ed anche per gran parte delle popolazioni locali appare come un concetto astratto. Tra avere o non avere cibo da mettere sulla tavola e la devastazione ambientale con tutte le sue conseguenze, è più facile capire il problema del cibo. Se qualcuno dovesse proporre agli operai la chiusura immediata degli impianti petroliferi prenderebbe fischi e non applausi. L’operaio avrebbe il fondato timore di perdere il lavoro e non giudicherebbe attraente alcuna alternativa di un futuro lontano. E dunque, tenere in equilibrio il diritto al lavoro con il diritto alla salute e all’ambiente, potrebbe diventare un esercizio retorico o, se preferite, una fatica di Sisifo.

Il sindacato, invece, deve e può mediare, nel rapporto tra salvaguardia dell’occupazione, qualità del lavoro, sicurezza del lavoro e prospettive di superamento del fossile. Questo significa evitare una trappola. Trappola che sembra, da anni, già attiva nel mondo dell’indotto sia a Tempa Rossa sia in val d’Agri. In che cosa consiste la tagliola? In una specie di collaborazione di “classe” per cui si stringono accordi con le aziende o con le loro organizzazioni in cambio di salari migliori e altri benefici, abbandonando il controllo dei luoghi di lavoro e rinunciando a riforme e misure di più ampia portata, tipo investimenti sull’economia green.

Perché esiste questo rischio? Da una parte perché nella valle del Sauro e nella stessa val d’Agri, la condizione della trappola si è già materializzata nelle dinamiche di un “mercato” del lavoro locale gestito come bazar privati da alcune aziende appaltatrici, politici e anche sindacalisti, in un contesto, tra l’altro, di rapporti di forza “patologici”.

Dall’altra parte il rischio è evidente se guardiamo a quella che alcuni studiosi hanno definito la “frattura metabolica”, vale a dire la tendenza intrinseca del capitalismo a degradare l’ambiente da cui dipende la vita. In breve, sulla transizione ecologia, sulle fonti energetiche alternative al fossile, i petrolieri fanno solo chiacchiere per incantare gli interlocutori. Fino a quando il fossile porterà profitti, loro continueranno tranquillamente a estrarre. E solo quando il green sarà saldamente nelle loro mani e gli consentirà di moltiplicare gli utili, solo allora, forse, accadrà qualcosa sul fronte delle alternative.

Detto questo, sarebbe necessario il rilancio di un sindacalismo militante come motore del movimento ambientalista e dell’alternativa all’industria predatoria. E probabilmente è quello che stanno provando a fare i sindacati a partire dalla stagione di lotta e proposta avviata con la manifestazione del 31 marzo.

Tuttavia, bisognerebbe evitare un’altra trappola: quella della propaganda che sotterra le potenzialità delle critiche e delle autocritiche. “La grande partecipazione dei lavoratori alla manifestazione”, dichiarata dai sindacati confederali, non corrisponde alla realtà. Non è una questione di numeri, 100 o 200, ma una questione di qualità e peso della battaglia.

Emergerebbe, in quella manifestazione e non solo in quella, – è la mia modesta opinione – una realtà eccessivamente “atomizzata” di quello che Veblen chiamava “il popolo sottostante”, mentre il potere aziendale è estremamente organizzato. Tutti gli altri – lavoratori, precari, impoveriti dall’industria petrolifera – appaiono, perché lo sono, per dirla con Marx, “un sacco di patate” non organizzato e molto facile da controllare. E questo perché alla manifestazione non c’era il sacco, ma un po’ di patate fuori dal sacco.

Il movimento sindacale lucano, soprattutto in questo momento, ha un ruolo fondamentale nella costruzione del futuro della Basilicata, ha sfide faticose da affrontare. Un lavoro complicato che nessuno dovrebbe ostacolare. Tuttavia, proprio perché le condizioni storiche sono difficili, non bisogna commettere l’errore di difendersi dalle critiche. Sarebbe più saggio accoglierle ed elaborarle, magari anche per respingerle purché diventino materia di riflessione.