La sfida di don Camillo a 200 anni dalla nascita

Riflessioni critiche in occasione del bicentenario di D’Errico

Don Camillo, così lo chiamavano i palazzesi. Oggi è l’uomo che più di ogni altro si associa alla cittadina di Palazzo San Gervasio, luogo ameno dove le colline del Vulture si spingono nella pianura bradanica a Nord Est della Basilicata.

Sono trascorsi 200 anni dalla nascita di Camillo Basilio d’Errico (13 febbraio1821) figlio di Agostino e Marianna Vigilante, discendente di nota famiglia appartenente alla borghesia terriera risorgimentale lucana che per tutto l’Ottocento partecipò attivamente alla politica regionale e nazionale prodigandosi per lo sviluppo economico e il riscatto del Mezzogiorno d’Italia.

Ma Camillo, che pur ha ricoperto la carica di sindaco del paese per oltre 35 anni segnando i caratteri della comunità, non è ricordato per l’impegno politico o per la dedizione all’amministrazione della cosa pubblica, è famoso perché voleva fare del posto dove visse per oltre 76 anni un luogo di bellezza. Scapolo, ricco e sensibile, agì per creare bellezza, si circondò di quadri meravigliosi, di libri, di stampe, di oggetti d’arte col chiaro intento di mettere su un museo.

Utilizzò le sue conoscenze artistiche e letterarie confrontandosi col sacerdote Michele Spezzacatene (palazzese) e col pittore Raffaele Barbieri (di Spinazzola) ed immaginò la sua BIOBLIOTECA E PINACOTECA arricchendo la raccolta di opere iniziata da suo padre Agostino che aveva riunito 120 dipinti delle collezioni delle nobili famiglie de Marinis – de Sangro.

Nel 1889 è proprio Camillo a sugellare la nascita del museo prima con la pubblicazione del “Catalogo dei quadri ed oggetti d’arte appartenenti al Cav.re Signor Camillo d’Errico di Palazzo S. Gervasio in Basilicata” e poi con la posa della targa in pietra sulla facciata del suo palazzo, sede della pinacoteca.

Ci teneva molto al patrimonio che aveva collezionato e al suo progetto museale, con gli anni matura la convinzione che il suo palazzo insieme al patrimonio artistico e bibliografico potesse diventare polo di cultura per tutto il paese.

Prima di passare a miglior vita (16 ottobre1897) redige il suo testamento dedicando particolare attenzione alla creazione dell’istituto più consono a traghettare le collezioni nei tempi moderni: “È mia assoluta volontà ancora che l’intero palazzo di mia attuale e costante abitazione, e nel quale si contengono tanti preziosi dipinti, opera di celebrati pittori e tanti libri tutti da me acquistati, rimanga esclusivamente destinato per uso di Biblioteca e Pinacoteca nel modo come si troverà all’epoca del mio decesso. Il mio congiunto Vincenzo Lichinchi rimane specialmente incaricato di provocare il decreto Regio per la erezione in ente morale della Biblioteca e Pinacoteca, che porteranno il mio nome e cognome.

In queste sue ultime volontà risiedono i motivi della sua fama che lo legheranno indissolubilmente alla storia.

L’idea di istituire un Ente Pubblico che fosse dedicato alla conservazione, manutenzione e valorizzazione delle sue collezioni artistiche fanno di Camillo d’Errico un coraggioso antesignano della migliore cultura liberale che riconosce l’arte come bene collettivo che supera la fruizione.

La sfida che emerse prerompente all’apertura del testamento colse impreparati le istituzioni locali e i famigliari. Il congiunto Lichinchi dopo pochi giorni rinunciò all’incarico, i fratelli intenarono giudizi sino in Cassazione col chiaro intento di ostacolare la costituzione dell’ente, preoccupati forse più della perdita degli immobili che del valore delle collezioni artistiche e bibliografiche.

La Suprema Corte darà il via libera per la costituzione dell’ente morale “Pinacoteca e Biblioteca Camillo d’Errico” rigettando i due ricorsi dei fratelli e stabilendo definitivamente: “È evidente che in applicazione delle leggi dello Stato, ed a norma delle medesime, compete al Governo azione sia pel riconoscimento in ENTE PUBBLICO sia per tutte le modalità che risultassero opportune per la regolare attuazione”. L’ente vide la luce nel 1914 a seguito dell’approvazione dello statuto.

Ai governi Luzzatti, Giolitti, Salandra, seguì la Grande Guerra che congelò la crescita del novello ente morale.

Con Mussolini e l’incardinamento del regime fascista nei gangli della vita politica, sociale e culturale dell’Italia, a giudicare dai fatti che si verificarono, sembrerebbe che qualcuno avesse confidato nella possibilità di un atto riparatorio volto a ribaltare quanto statuito definitivamente sino ad allora e che restituisse la proprietà dei due palazzi.

Intanto il comune di San Gervasio passa sotto la provincia di Matera, fu proprio la Prefettura di questa città a farsi artefice (sotto sollecitudine dei d’Errico?) di attuare il disegno del Ministro Bottai di liberare i palazzi dalle collezioni per poterli poi destinare ai famigliari contravvenendo alle volontà di Camillo.

Qualcuno intravede nella compiacenza del Bottai il desiderio del Duce di vendicarsi nei confronti del deputato socialista Francesco Scozzese Ciccotti, che lo aveva sfidato a duello, quando scoprì essere originario di Palazzo S. Gervasio; altri associano tale decisione al clima discriminatorio che aveva partorito le leggi razziali attuando regole e princìpi egemonici che definirono il paese agricolo e poco adatto ad ospitare il patrimonio artistico in questione.

Di fatto, dopo aver appositamente commissariato l’ente morale e il comune con la nomina del funzionario di prefettura con il compito preciso di  acquisite l’assenso dei d’Errico e mettere a tacere i cittadini riottosi, dopo aver ricevuto il parere favorevole del museo Ridola di Matera che lo ritenne “un acquisto giovevole”, il Senato e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, sanziona e promulga la legge 13 luglio 1939-XVII, n. 1082 che trasferisce l’ente “Biblioteca e pinacoteca Camillo d’Errico da Palazzo San Gervaio a Matera”.

Un vero e proprio colpo di mano negli stessi giorni in cui il parlamento approvava la legge n. 1089 di “tutela delle cose d’interesse Artistico o Storico” per regolare l’ampia materia dei beni culturali vietando lo smembramento delle collezioni artistiche su tutto il territorio nazionale.

Tra la fine di novembre e gli inizi di dicembre dello stesso anno (1939) il commissario ministeriale Pizzoloruzzo provvede alla vendita degli arredi, svuota i palazzi e trasferisce materialmente tutti i capolavori, i libri e le stampe presso il museo Ridola di Matera, ottemperando alle disposizioni del ministro Bottai di liberare i palazzi per dare alloggio ai d’Errico che intanto registravano un sacrificio alla causa con la caduta in guerra del giovane Michele durante la battaglia di Gondar (Etiopia).

Un camioncino farà da spola tra Palazzo e Matera per più giorni tra le proteste della cittadinanza e l’arresto di decine di giovani a cui non sfuggiva l’ingiustizia e il “furto” che si tava consumando.

Successivamente i libri saranno affidati alla Biblioteca Provinciale, i quadri andranno ad arredare gli uffici della Prefettura, della questura, della Provincia facendo bella mostra in occasione di raduni e banchetti; gran parte rimarranno negli scantinati del Ridola in attesa di tempi migliori.

Tra i materani si fece largo la convinzione che don Camillo avesse lasciato i quadri per abbellire gli uffici pubblici della città. Usanza che ancora oggi si rinnova in occasione delle cerimonie importanti come il G20 o quando si organizzano banchetti e ci si fregia della ricchezza artistica altrui per fare la “figura”.

Scoppia la Seconda Guerra Mondiale: non è più tempo di pensare alla quadreria! Tutta la Nazione cade in un profondo periodo di crisi facendo strage di uomini e di opere d’arte.

I palazzesi però non dimenticarono l’ingiustizia ricevuta e la bellezza di quelle tele,  fecero numerose richieste di restituzione rivolte alle istituzioni democratiche sorte con la Costituzione repubblicana fiduciosi di vedere ristabiliti i diritti rinvenienti dalle volontà del munifico testatore.

Sul finire degli anni Novanta una giovane nuova amministrazione comunale a Palazzo San Gervasio si fece carico di riportare la questione all’attenzione della cronaca e delle istituzioni finendo col promuovere azione legale nei confronti del Ministero.

Dopo la denuncia della Shoah dell’arte avvenuta con centinaia di migliaia di opere d’arte trafugate agli ebrei ad opera dei nazisti la comunità internazionale si è sensibilizzata all’argomento e numerose sono le restituzioni di singoli quadri o intere collezioni ai legittimi proprietari a ripagare i sopprusi dei tempi oscuri.

E Matera? La società civile, gli intellettuali, i politici, i poeti, artisti e musicisti di quella terra nobile? Le istituzioni democratiche che hanno festeggiato e finanziato la grande kermesse di “Matera Capitale Europea della Cultura”? … non se la sentono; le voci di intellettuali come Nico Calice e Tommaso Pedio che sostenevano il “ritorno della pinacoteca nella sua integrità a Palazzo”, rimangono ancora oggi solitarie ed inascoltate. In tutti questi anni gli intellettuali lucani e le istituzioni non hanno dimostrato il coraggio necessario per riparare al maltolto, si trincerano dietro la legge fascista per perpetuare i soprusi di un tempo. Oggi come allora la nomenclatura materana è convinta che  la raccolta delle opere d’arte venne donata per fare bella la città.

Oggi l’ente morale voluto da don Camillo naviga a vista, svuotato del ruolo e delle finalità che lo hanno visto nascere, ha subìto il declassato a piccola fondazione privata funzionale alla raccolta spicciola di

consensi, usato per distribuire finanziamenti pubblici in attività che non rientrano tra le sue finalità statutarie. Ognuno lo spinge verso i propri interessi culturali: una piccola mostra personale, un concertino, una gara di biciclette, un concorsino paesano, …

L’ente di don Camillo rinuncia alla gestione del suo patrimonio e all’amministrazione dei beni preferendo svolgere il ruolo di grimaldello per superare le pastoie burocratiche, pubblicizzare/finanziare un libro, organizzare un convegno… sballottato tra i sanniti e i romani.

Intanto si celebra il bicentenario con l’annullo di un francobollo, l’intitolazione della stradina in paese, aspettando in religioso silenzio che la Corte di Cassazione, scovando cavilli giuridici, metta la parola fine alla evidente incapacità storica degli attori locali e regionali di cogliere la sfida lanciata da don Camillo nel 1897. In pochi ma … fiduciosi!

Arch. Gennaro UNGOLO – Presidente Associazione –PALAZZO ARTE CULTURA

MAESTRO DI PALAZZO SAN GERVASIO (ca. 1625-1635), Natura morta con colomba. Olio su tela, cm 144 x 212  

MAESTRO DI PALAZZO SAN GERVASIO (ca. 1625-1635), Natura morta con colomba. Olio su tela, cm 144 x 212D'Errico

RAFFAELE BARBIERI (1846): Ritratto di Camillo d’Errico, olio su tela 63×50

RAFFAELE BARBIERI (1846): Ritratto di Camillo d’Errico, olio su tela 63x50