Reddito di Cittadinanza e Progetti di Utilità Collettiva, a che punto siamo?

Analisi della misura di contrasto alla povertà a due anni e mezzo dall’avvio: i casi di Venosa e Lavello

Dopo due anni e mezzo dall’istituzione del Reddito di Cittadinanza (RdC) con la legge n. 26 del marzo 2019 è possibile ed opportuno fare un bilancio dei risultati raggiunti.
Molto si è scritto e detto a questo riguardo e molto ancora si scriverà e si dirà. A questo dibattito vogliamo partecipare anche noi mettendo a disposizione di chi ci legge i dati raccolti e qui pubblicati nonché alcune riflessioni e considerazioni frutto della nostra esperienza personale.
Il Reddito di Cittadinanza ha rappresentato senz’altro una misura positiva e necessaria per la lotta alla povertà. Le provvidenze economiche e la platea dei beneficiari sono significativamente aumentate rispetto alle misure del passato (il Reddito di inclusione, ad es.) e questo non può che essere valutato positivamente per il contrasto alla povertà e alle disuguaglianze in forte aumento, come tutti riconoscono e denunziano.

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Ciò detto, in questi primi anni di attuazione della disciplina del Reddito di cittadinanza sono emerse delle criticità intorno alle quali si è aperta un’ampia discussione che dovrebbe portare nel breve termine ad interventi di riforma. Riportiamo qui di seguito sinteticamente i punti più discussi e le previsioni di modifica.

a) La misura economica riconosciuta ai percettori di RdC è costruita in modo tale da risultare più “generosa” con i nuclei familiari ristretti rispetto a quelli più numerosi e con presenza di minorenni. Molto probabilmente verrà rivista la scala di equivalenza per il calcolo della prestazione.
b) Le condizioni per l’accesso degli stranieri al beneficio del RdC (almeno 10 anni di residenza nel nostro Paese, con gli ultimi due in modo continuativo) sembrano essere troppo escludenti. Si sta così pensando ad un loro ammorbidimento.
c) La misura della prestazione è uguale su tutto il territorio nazionale e non tiene conto del differente costo della vita che pure esiste tra le diverse aree del Paese. Ne consegue che lì dove il costo della vita è più basso la prestazione risulta essere molto più generosa che non nelle aree dove il costo della vita è più alto. Una differenziazione della prestazione per aree geografiche è nel conto delle cose possibili ma potrebbe avvenire solo ad opera delle singole Regioni se si considera il RdC come facente parte dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) da assicurare su tutto il territorio nazionale in modo omogeneo.
d) Il reddito di cittadinanza ha funzionato bene come misura di contrasto alla povertà, ma ha mostrato molti limiti come strumento per una politica attiva per il lavoro. Il percettore del RdC si sarebbe dovuto attivare, con l’aiuto dei servizi pubblici ed in particolare dei centri per l’impiego, per uscire quanto prima dalla sua condizione di disoccupazione. Su questo fronte i risultati sono stati molto scarsi. Infatti: 1) pochi sono stati i percettori di RdC presi in carico dai centri per l’impiego (CPI) ed avviati al lavoro; 2) molto pochi anche quelli effettivamente impegnati nei Progetti di utilità collettiva (PUC) predisposti dai Comuni; 3) addirittura il RdC, per il modo in cui è stato disciplinato, avrebbe causato l’aumento del lavoro nero, in particolare di quello di breve durata. Infatti molti disoccupati e percettori del RdC avrebbero rinunziato a stipulare un contratto di lavoro temporaneo, part-time e di breve durata, dichiarandosi disponibili a svolgerlo solo in nero, per evitare che il reddito proveniente dall’attività lavorativa regolare potesse comportare una riduzione o una perdita della prestazione economica percepita come RdC.

Le cause del “fallimento” di questa seconda funzione del RdC, quella sul fronte della politica attiva per il lavoro, sono diverse. Innanzitutto bisogna dire che tra le molteplici funzioni attribuite dal legislatore al RdC, quella di politica attiva era senz’altro la più difficile da attuare. Bisogna poi riconoscere lo stato di abbandono, in molte parti del Paese ed in Basilicata in particolare, dei centri per l’impiego, strumento principe attraverso il quale si sarebbe dovuta attuare la politica attiva per il lavoro. A tutto questo infine si deve aggiungere una disciplina delle procedure un po’ troppo “cervellotica” e frammentata tra soggetti diversi, ciascuno dei quali dotato di una propria autonomia (Ministero del Lavoro, Centri per l’impiego regionalizzati, Agenzie regionali per il lavoro e la formazione, Anpal, Inps, Servizi sociali dei Comuni singoli o aggregati per ambito territoriale), e spesso con difficoltà di comunicazione tra di loro. Come se tutto ciò non bastasse si è poi aggiunta l’epidemia da Covid.19 che ha comportato ritardi e rallentamenti di tutti gli adempimenti previsti dalla legge sul RdC , segnandone il definitivo fallimento almeno sul fronte delle politiche attive per il lavoro.  Da più parti a questo riguardo si propone di tenere separate le due funzioni attualmente in capo alla disciplina del RdC, quella di lotta alla povertà e quella di politica attiva per il lavoro. Sicuramente a questo riguardo verranno introdotte delle novità difficili al momento da prevedere.

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Per quanto ci riguarda almeno su due punti vorremmo che si aprisse una riflessione ed un dibattito, partendo ovviamente dall’esperienza diretta di ciascuno e dai dati che qui pubblichiamo.
A) E’ vero o no che, in particolare nel Mezzogiorno e nelle sue aree interne, il RdC induce a non accettare il lavoro regolare specie se soltanto temporaneo e parziale, per evitare di vedersi ridotta o annullata la prestazione economica in godimento? Può essere utile a questo proposito consentire di svolgere attività lavorative regolari senza che, entro un certo limite (per es. di 4-5.000 euro all’anno) e magari con percentuali decrescenti, il reddito così percepito e dichiarato porti alla perdita o alla riduzione dei benefici in godimento? Potrebbe essere questa la via, già seguita in altri paesi europei, per evitare che si crei quella che viene definita “la trappola della povertà” (non accetto di lavorare, se non in nero, perché comunque non prevedo di ottenere con il lavoro regolare un reddito superiore a quello garantito dall’assistenza pubblica).

B) I percettori del RdC sono tenuti, salvo i casi di esclusione ed esonero tassativamente previsti, ad impegnarsi per un numero di ore settimanali (min. 8 e max 16) nei progetti di utilità collettiva predisposti dai Comuni. Il meccanismo immaginato per l’impiego di questi soggetti è così complesso e macchinoso che (come mostra l’esperienza di Venosa nella tabella a fianco riportata) ad oltre 2 anni e mezzo dalla legge istitutiva del RdC pochissime sono le persone effettivamente coinvolte ed impegnate in detti progetti. Bisogna infatti che per prima cosa il Comune approvi i progetti, dopodiché i CPI ed i Servizi sociali comunali devono individuare tra i percettori del RdC a loro affidati tramite un apposito algoritmo gestito dal Ministero del Lavoro quelli che sono tenuti ad impegnarsi nei suddetti progetti. Individuati i soggetti, bisognerà che gli stessi vengano segnalati al Comune proponente o al Comune capofila di ambito territoriale (nel nostro caso Rapolla) per procedere alla visita medica, all’assicurazione Inail e all’acquisto e fornitura sia degli strumenti necessari alla protezione individuale (scarpe, guanti, mascherine etc.) sia del materiale indispensabile per la realizzazione del progetto specifico da realizzare (utensili per il lavoro e materiale di consumo).

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A questo punto si passa alla gestione del progetto vero e proprio che di solito è attribuita al personale dei Servizi sociali dove lavorano per lo più assistenti sociali che non hanno certo la professionalità più indicata per una proficua gestione dei “cantieri” dei progetti di utilità collettiva. Un compito davvero arduo quello della gestione dei PUC non solo per gli aspetti meramente organizzativi del controllo delle presenze e degli orari da rispettare con soggetti che possono variare nel tempo e con orari che possono non essere uguali per tutti, ma anche e soprattutto per le difficoltà di motivare le persone impegnate nei progetti. Queste infatti il più delle volte vivono il loro impegno nel PUC come una “sfortunata penalizzazione”, sia perché non ricevono nulla in più rispetto a quanto già percepito con il RdC sia perché alla maggioranza degli altri percettori del RdC non viene chiesto ed imposto un impegno analogo. Da qui un atteggiamento riluttante e la ricerca dell’occasione buona per non impegnarsi da parte dei soggetti coinvolti nei PUC, due ostacoli difficili da superare per la buona riuscita dei PUC contro i quali gli assistenti sociali comunali, per quanto bravi, ci appaiono del tutto impotenti.

Come venir fuori da questo preannunziato ed inevitabile fallimento dei PUC?
Il problema non sembra essere in cima alle preoccupazioni del governo e di chi sta lavorando alla riforma del RdC. E neppure sembra al centro dell’attenzione di quanti a vario titolo si occupano del RdC. A noi però pare giusto ed urgente occuparsene non solo per il numero dei soggetti coinvolti e che vivono il loro impegno nei PUC come una ingiusta penalizzazione, ma anche e soprattutto perché con il fallimento dei PUC si registra pure uno spreco notevole di risorse umane e finanziarie che potrebbero avere sicuramente un migliore utilizzo.

Non c’è indubbiamente una ricetta facile per rispondere alla domanda che ci siamo posti. La soluzione tuttavia ci sembra che possa essere trovata partendo da alcune idee guida. Le riportiamo sinteticamente qui di seguito nella speranza che possano servire ad aprire un dibattito utile alla riforma dei PUC.

  • La partecipazione ai PUC non dovrà essere obbligatoria ma volontaria.
  • Ai PUC potranno partecipare soltanto i percettori del RdC.
  • L’impegno nei PUC darà diritto ad un compenso che sommato a quanto già percepito con il RdC dovrà avvicinarsi il più possibile al valore del “salario medio zonale”.
  • La progettazione ed il controllo dei PUC dovrà essere di esclusiva pertinenza dei Comuni che ne dovranno mantenere la regia con appositi Uffici e personale, ricevendo per lo scopo adeguate risorse finanziarie.
  • I PUC dovranno riguardare opere e servizi a carattere temporaneo e straordinario e non essere sostitutivi di attività ordinarie già altrimenti realizzate dal Comune.
  • La realizzazione dei PUC dovrà avvenire con specifiche aziende comunali o con affidamento ad imprese private.

Canio Lagala (articolo in pubblicazione sul periodico venosino Albo Pretorio, ottobre 2021)