La retorica politica e i ruttini sulla criminalità organizzata in Basilicata

Si faccia questa Dia, nella speranza che finalmente si indaghi anche a certi livelli “superiori” che poco hanno a che fare con estorsori, spacciatori, usurai armati e violenti, ma che hanno molto a che fare con una mafia tutta loro, quella degli appalti, delle risorse pubbliche, della devastazione del territorio, dell’accumulo di voti al mercato nero del consenso, dei conti in banca e delle società prestanome

Tutti vogliono la Dia in Basilicata. Sarebbe utile, senza dubbio, al lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine. Tuttavia, dovremmo sapere che oltre a lottare contro le mafie, bisogna combattere la cultura della mafiosità. E questo non è certo compito della Dia. Molti politici lucani credono forse di fare bella figura o di mettersi la coscienza a posto sollecitando in ogni dove l’istituzione della Direzione investigativa antimafia in Basilicata. È il minimo che possano fare ma non è assolutamente sufficiente. Tra l’altro non è neanche una loro idea: c’è voluto il segnale d’allarme del procuratore capo di Potenza per fargliela saltare in mente.

La mafiosità è pervasiva e si insinua negli spazi della società civile, tra gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone, penetra nelle relazioni sociali e politiche, nella vita quotidiana delle città e dei paesi. È quel modo di fare e di pensare che favorisce il terreno di coltura e di cultura che esclude l’etica dai doveri di cittadino e la morale dalle istituzioni pubbliche e private. Saltare la fila, farsi raccomandare e raccomandare, truccare un concorso, stimare chi si arricchisce nonostante le pratiche illegali, accettare un incarico sapendo di non poterlo gestire, spingere con sotterfugi le carriere di amici e parenti è cultura della mafiosità. L’imprenditore che minaccia i lavoratori di licenziamento quando questi reclamano diritti, che si fa restituire dagli operai una parte del salario. I politici e i funzionari che favoriscono aziende a discapito di altre, che comprano il consenso in cambio di favori, che speculano sui rimborsi.  Il magistrato che non lavora, che non studia i fascicoli, che se ne fotte della terzietà. Potremmo fare un noioso elenco, ma bastano questi esempi per capire che cosa intendiamo per mafiosità.

Tutto questo avviene o può avvenire in piena legalità, senza violare alcuna legge, ma calpestando i principio di onestà e sperperando il capitale di fiducia nelle relazioni sociali. Si chiama mafiosità perché può rappresentare il terreno favorevole al potere della Mafia che la Dia dovrebbe contrastare. Ebbene, la politica e le sue istituzioni, il mondo delle imprese e del sindacato non dovrebbero limitarsi a chiedere la Dia in Basilicata. Dovrebbero soprattutto agire, in base alle loro prerogative, per combattere la mafiosità a partire da se stessi, dai loro comportamenti. Perché un Martorano in galera se ne fa un altro: la mafia non lascia vuoti, specie quando la mafiosità dilaga.

E si faccia questa Dia, nella speranza che non si scavi sempre e solo nello stesso punto, sui soliti nomi, sui carcerati da arrestare in carcere. Si faccia questa Dia, nella speranza che finalmente si indaghi anche a certi livelli “superiori” che poco hanno a che fare con estorsori, spacciatori, usurai armati e violenti, ma che hanno molto a che fare con una mafia tutta loro, quella degli appalti, delle risorse pubbliche, della devastazione del territorio, dell’accumulo di voti al mercato nero del consenso, dei conti in banca e delle società prestanome.

A proposito chiediamo: nel momento in cui si viene a sapere, nel 2018, che un clan della ‘ndrangheta avrebbe messo le mani su una cava funzionale alla costruzione di parchi eolici, qualcuno si è premurato di capire di quale cava si tratti, intestata a chi e quando sarebbe stata autorizzata? Siamo certi di sì, anche perché sono trascorsi oltre due anni dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Paolo Signifredi. Aspettiamo di saperlo.