Spopolamento e giovani in fuga dalla Basilicata: le soluzioni del bla bla bla

Siamo nelle mani di una classe dirigente che usa la retorica per non apparire inadeguata: le parole sarebbero pietre, ma loro le trattano come bolle di sapone

Sul fenomeno dello spopolamento e dell’emigrazione giovanile dalla Basilicata da 20 anni si dicono le stesse cose e si fanno le stesse cose. Sia la politica sia i sindacati quando qualche istituto di ricerca sforna i dati, vale a dire ogni anno, fanno ripartire i comunicati stampa e le dichiarazioni pubbliche. Per dire cosa? Quello che sappiamo già. Per dirlo come? Con le stesse parole dell’anno prima, a parte l’introduzione di qualche inglesismo fresco di stampa.

E quali sono le ricette, fritte e rifritte proposte da questi signori? “Piano straordinario per l’occupazione, assunzioni nella pubblica amministrazione”, dice qualcuno. Qualcun altro ci fa sapere che “in assenza di lavoro i giovani emigrano”, un genio.

Vito Bardi entra nell’argomento e fa sapere che, citiamo testualmente, “occorre puntare sulla costituzione di nuove aziende, preferibilmente costituite da giovani lucani, puntando tutto sulle imprese più promettenti e incentivando lo sviluppo di quelle esistenti, puntando alla crescita dimensionale”. Banalità condite nel vago. Qualcun altro, dall’opposizione in Consiglio regionale, ne approfitta per strumentalizzare la faccenda convinto di non avere alcuna responsabilità

Insomma, la sensazione è che si navighi a vista. La sensazione è che si parli per coprire l’incapacità di fare. Tutti si affidano alle miracolose soluzioni del Pnrr, ossia al potere taumaturgico del denaro. Ci auguriamo che in Basilicata non trovi applicazione la legge di Young: più grosso è il finanziamento, meno tempo ci vuole a fare lo sbaglio.

E veniamo al dunque. Anche noi siamo costretti a ripeterci per una sola ragione: gli elementi di riflessioni offerti dal nostro giornale alla politica e al sindacato, sono ancora oggi assenti dal dibattito.  E dunque ribadiamo in sintesi quanto già scritto due anni fa e riscritto un anno fa a proposito dello spopolamento e dell’emigrazione giovanile. Non prima di aver ricordato che per fare un edificio occorrono fondamenta solide. La realtà, invece, ci dice che qui si discute del tetto e degli arredamenti, senza aver progettato e realizzato i pilastri.

Perché i giovani emigrano dalla Basilicata?

Si lascia la nostra regione “perché non esiste meritocrazia, perché le retribuzioni sono basse rispetto alle professionalità, perché non si trova lavoro se non con l’aiuto di qualche raccomandazione.” Questa è la risposta più comune. In parte è vera, tranne la retorica sulla meritocrazia che merita un approfondimento a parte. Insomma, giovani che studiano si diplomano, si laureano fanno stage, master, corsi di specializzazione, periodi lavorativi sottopagati e alla fine dei conti restano con le mosche tra le mani. Quelli che decidono di rimanere devono affrontare un pendolarismo interno faticoso, treni fatiscenti, trasporti pubblici inefficienti, servizi sanitari inadeguati, infrastrutture inesistenti in un quadro complessivo di ritardo dello sviluppo. Devono fare i conti con l’attesa che qualcosa accada. Molti di quelli che restano sono tentati da un’unica strada, quella della pubblica amministrazione. Come nel periodo post unitario. Le uniche possibilità di sopravvivenza  risiederebbero nelle libere professioni, nel pubblico impiego, nella politica, esprimendo nei fatti un bisogno crescente di rendita amministrativa. I più poveri, le braccia che non emigrano, anche loro devono ricorrere alla politica e alla pubblica amministrazione, sperando in lavori certamente più umili ma necessari a una sopravvivenza supportata dalle “certezze” dell’amministrazione pubblica.

Perché gli incentivi non funzionano?

Se i giovani del Nord emigrano all’estero soprattutto per cercare condizioni di lavoro migliori e retribuzioni più alte, quelli del Sud vanno al Nord per cercare non solo un lavoro, ma un futuro stabile e sostenibile. Si emigra in cerca di futuro, di condizioni complessivamente migliori al cui centro c’è senza dubbio la necessità di un lavoro decentemente retribuito e, possibilmente, gratificante. Tuttavia, quel lavoro se collocato in un contesto di disagio, non appare desiderabile. Oltre 300 giovani hanno abbandonato Stellantis, ex Fca, a Melfi. Chiediamoci perché.

C’è bisogno di un clima pubblico accogliente, di infrastrutture culturali e civili agevoli, di un welfare che sappia dare supporto nei momenti di difficoltà, di partenza, di ambientamento. C’è bisogno di una giustizia che funzioni, di una burocrazia credibile, di una sanità affidabile. Insomma, di un ambiente politico, istituzionale, sociale ed economico che dia un senso alla scelta, un’affidabilità alle prospettive di permanenza in un luogo.

Le politiche degli incentivi, quasi tutte concentrate sul lavoro, non producono grandi effetti: i giovani emigrano lo stesso. Proprio perché il problema del lavoro è centrale ma non esclusivo. Il contesto è fondamentale quanto il lavoro. E non solo il contesto fisico – infrastrutture, funzionamento dei servizi, eccetera – ma il funzionamento e la qualità dell’intero sistema che ruota intorno all’abitare nel territorio – città, quartiere, regione –  in cui lavoro.

I giovani, in sostanza, hanno bisogno di fidarsi del territorio. L’affidabilità di un territorio è data da diverse variabili sociali, politiche, culturali. Al centro delle variabili immateriali troviamo la fiducia. Il capitale di fiducia sviluppa convivenza civile di qualità, senso di sicurezza, senso di comunità e di reciprocità.

In un territorio dove si truccano i concorsi, dove si inquina impunemente, dove il welfare non funziona, dove l’Università ha un rating basso, dove circolano corruzione, privilegi, raccomandazioni, dove il problema del free-rider è accentuato, dove l’ambiente naturale è sottoposto a forti stress, la fiducia scarseggia insieme a tutto il resto. Si verifica un fenomeno che possiamo definire “deprivazione della speranza”. Le politiche degli incentivi all’occupazione da sole non bastano, anzi appaiono inutili, senza massicci interventi di rigenerazione sociale, economica e politica.

L’approccio del bruco

Le misure adottate fino ad oggi, e quelle dichiarate in queste settimane, per incentivare l’occupazione giovanile sono limitate da un approccio debole. I giovani, e non solo, sono trattati come bruchi. Esseri che, seppure destinati a diventare farfalla, sono costretti a rimanere a lungo nella condizione del bruco. Perciò la politica, che si comporta da grossolana bio-politica, si occupa delle foglie, ossia del cibo (il lavoro). E le iniziative sono tutte finalizzate alla garanzia del cibo al bruco, in maniera tale che possa vivere. Le condizioni “climatiche” “ecologiche”, “geomorfologiche”, ambientali, necessarie al passo successivo naturale che riguarda la metamorfosi di quel bruco in farfalla, diventano spesso marginali. Fuor di metafora, diventa marginale il buon funzionamento e la qualità del sistema che ruota intorno al lavoro, ossia il sistema di vita complessivo. I giovani non amano la prospettiva del bruco, aspirano – come è naturale che sia – a diventare farfalla. E se percepiscono che in un territorio ci sono le condizioni per sviluppare un percorso di emancipazione nel lavoro e allo stesso tempo dal lavoro, scommettono volentieri in quel territorio. Ancor di più scommettono se in quel percorso sono protagonisti.

L’approccio tamarindico

Non credo che molti dei ragazzi che sono andati via avranno a breve la possibilità di tornare, se lo vorranno. È però possibile evitare che i nati di oggi tra 20-30 anni decidano di emigrare. Questa possibilità risiede nella capacità di costruire percorsi di sviluppo che producano risultati sul lungo periodo. Percorsi, dunque, strutturali, di rigenerazione economica, politica e sociale che nulla abbiano a che fare con il consumo immediato dei frutti (consenso politico, arricchimento di pochi, comode soluzioni istantanee, emarginazione del futuro) ma che abbiano molto a che fare con la cura del terreno e degli alberi. Investimenti ragionati, che diano un senso alle misure di carattere economico in relazione alle potenzialità del territorio, in una prospettiva di sviluppo (e non solo di crescita).

Se cominciamo a curare il terreno e l’albero eviteremo in futuro la fuga di giovani e tratteremo la mobilità delle persone come un fenomeno naturale e virtuoso che non avrà alcun carattere migratorio. Occuparsi oggi del terreno e dell’albero, consentirebbe anche a chi ha già lasciato questa terra di provare a ritornare. Tuttavia, la cura del terreno e dell’albero richiede nuovi approcci, nuove esperienze, nuovi protagonisti, nuovi saperi. Chi è abituato a mangiare i frutti senza preoccuparsi dell’albero non può azzardare nessuna prova di redenzione. Il bancomat è cosa diversa da un tamarindo.