Guerra, pace, riforme e rivoluzione: le ragioni di un dibattito soffocato

Il potere costituito ha tutto l'interesse a mantenere la sua pace, situazione in cui può esercitare e consolidare liberamente indisturbato il suo dominio

La crisi russo-ucraina ci obbliga ad affrontare più in profondità il tema della guerra e della pace andando oltre la cronaca del presente utilizzando le categorie della prassi storica per comprendere, identità culturali e territoriali di popoli e nazioni, supremazie ideologiche, economiche e militari degli Stati sovrani, ruoli dei poteri economici e finanziari sulle definizioni degli assetti geopolitici.

Dal senso comune il concetto di pace è assimilato a “status quo”, tant’è che coloro che si adoperano per la custodia della realtà esistente vengono acclamati come paladini della pace, mentre chi subisce una pace ingiusta è additato alla gogna mediatica come pericoloso guerrafondaio ammorbato da labilità emotive. Non è così.

Il potere costituito ha tutto l’interesse a mantenere la sua pace, situazione in cui può esercitare e consolidare liberamente indisturbato il suo dominio, per cui questa pace viene presentata come valore assoluto, realtà immutabile che si contrappone alla guerra perché semanticamente rappresenta il suo contrario. Non è così.

La pace non è un valore assoluto, perché è il risultato dei rapporti di forza tra poteri nazionali e geopolitici, quindi è una situazione contingente e conseguentemente cangiante e relativa. Le mobilitazioni di massa per la pace, sollecitate da suadenti atti comunicativi, sono plastiche testimonianze a conferma del postulato essere per la pace si è conseguentemente schierati contro la violenza. Non è così.

La pace è il risultato di una guerra, dove il vincitore instaura la sua violenza per mantenere la supremazia sul vinto pretendendo, dopo aver sparato, che il nemico non spari più, per cui, la pace è una situazione in cui il vincitore esercita il suo potere di dominio con la violenza, tant’è, che chi attenta al potere del vincitore è classificato come violento e contro la pace, mentre la violenza esercitata dal potere vittorioso è definita pace.

Esemplare è il caso del Donbass, alle cui sofferenze celate da anni di colpevole oblio della comunità internazionale, si sommano alle sorde complicità del mondo civile sulle continue violenze a danno di popoli inermi in più partì del pianeta. Per giunta, si manifesta con la subdola certezza che l’atto violento sia, in via esclusiva, commesso attraverso l’uso di armi improprie che inducono allo scontro fisico. Non è così.

L’esercizio della violenza avviene nel rapporto tra coercizione e persuasione esercitata dai poteri costituiti nella società civile, famiglia, luogo di lavoro, chiesa, economia, sanità, scuola, come nello Stato, mass-media, forze armate, magistratura, politica.

Per di più, anche l’idea rivoluzionaria essendo confusa con ribellione viene rubricata tra gli atti di violenza di massa, per cui ogni tentativo di prevenzione od ostilità è registrato tra le contromosse preservative o repressive di pace. Non è così.

Se il continuo operare per offuscare la verità è un atto di violenza, lo è altrettanto il suo contrario, perciò, la parola rivoluzione è certamente intrisa di violenza, ma di una violenza non in sé, come agevolmente istillato dalla cultura dominante, ma al contrario, essa, è forma di violenza intrinseca alla realtà, che sprigiona “forze” contrapposte ad altre “forze” violente che la sovrastano.

Infatti, la violenza essendo un problema di consapevolezza teorico-pratica, non presuppone necessariamente un nesso con l’uso delle armi convenzionali, in quanto, spesso, queste sarebbero inadeguate, se non completamente inutili nella risposta contro chi utilizza, le leve di comando in senso persuasivo, ammaliante, psicologico, comunicativo spostando lo scontro sul terreno più ardito e complesso della egemonia culturale.

Nella lotta politica, ad esempio, per il diritto ad un ambiente favorevole allo sviluppo del turismo, occorrerà porre mano ad accertamenti conoscitivi soprattutto culturali e sociali, su ciò che rappresenta “l’avversario statico” con annessi i relativi modi di operare per perpetuare lo “status quo”.

Verranno, alla luce tante verità, scomode e violente, che rivelano l’esistenza appositamente sottaciuta di una non dichiarata “guerra civile” combattuta in

trincee di intrecci tra politica, apparati pubblici e attività irregolari, di allegre consorterie dedite al denaro e a pressioni illecite, di nicchie di privilegio contigue con entità illegali, per cui ogni azione di contrasto verso questi “non pacifici” poteri potremmo definirli, senza alcun dubbio, atti rivoluzionari intendendo per rivoluzione il far leva su forze organizzate, che contrapponendosi ad altre forze altrettanto organizzate divengono coscienti del particolare cosi come del generale padroneggiando strumenti teorici e pratici che rendano plausibile ii transito sulla via del cambiamento e della pace possibile.

Contro l’azione rivoluzionaria, la cultura dominante oppone un larvato riformismo gradualistico omettendo maldestramente che il riformismo rappresenta storicamente la tangibile possibilità del superamento dello “status quo”.

Il continuo cincischiare sull’argomento, rivela una volta mistificazione a fini egemonici introducendo un’idea di “riformismo di sistema” in cui tutto ciò che si riforma è migliorativo e che il domani sarà necessariamente migliore dell’oggi utilizzando per la bisogna tutto l’armamentario del vecchio pensiero evoluzionistico-positivista.

Per il potere costituito la parola riformare non avendo lo stesso significato di modificare, nel senso di ridurre l’esercizio del potere medesimo, usa le riforme al fine di consolidare la propria egemonia, attraverso modernizzazione e consenso sociale, sicché il riformismo, non essendo né idea, né prassi che possa richiamarsi ad un processo storico, ma è mera regolazione metodologica diviene strumento adattabile sia a scopi rivoluzionari, che di salvaguardia del dominio costituito, perciò ogni parte in causa avrebbe in dote il riformismo che si merita.

Infatti, la storia insegna che l’azione rivoluzionaria è cosparsa di conquiste sociali ottenute attraverso la realizzazione di riforme supportate da politiche collaborative e alternative, così come le vicissitudini dei ceti dominanti è contraddistinta da scontri tra modernisti e conservatori al fine di modellare il sistema dominante.

Nonostante la realtà storica ci presenti due tipologie di riformismo sostanzialmente antagonistiche, oggi viviamo nel periodo dell’affermarsi del “riformismo dall’alto”, cioè di riforme gestite a fini e misura dei ceti dominanti, tant’è che per una migliore comprensione del fenomeno bisognerebbe porsi il perché la riforma sanitaria non sia mai stata contrastata da proposte riformatrici di spessore strutturale.

Sul campo, oggi, esiste un’unica forma di riformismo dal pensiero impropriamente strutturato sulla tollerabilità finanziaria, sull’affidabilità del privato sul pubblico generando risultati che ben conosciamo riguardo alle smisurate iniquità sociali prodotte a partire dalla qualità della spesa pubblica, della fiscalità, dei servizi.

Per giunta, partiti, sindacati, parlamento, governi perseguendo sul solco tracciato dal “riformismo corto” promuovono e ratificano l’involuzione del processo di emancipazione sociale, del progresso sostenibile mettendo a rischio “la pace” sociale.

In conclusione, la realtà, ci pone di fronte ad un riformismo concepito ed esercitato dalle sole forze dominanti, guidato da un solo pensiero, da unica cultura politica, per cui, tutti i danni provocati dalle contraddizioni che implodendo in seno allo stesso ceto dominante, verranno “violentemente” scaricate sulla pelle dei dominati costretti a subire, perché privi di élites in grado di offrire un valido progetto contro egemonico.

“Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”. (Tacito)

Renato Cittadini –  già Consigliere regionale