Le nuove schiavitù nella Basilicata dei prenditori di risorse e di voti

Esistono vere e proprie zone franche dove lo “schiavismo” è a base del funzionamento della società locale ed è funzione dell’economia locale

Michele Finizio

Lo schiavismo permette a un gruppo limitato di persone di esercitare un dominio su gruppi numerosi di altre persone. Questa affermazione è inconfutabile. Tuttavia c’è chi disprezza la schiavitù ponendo una questione di moralità e di equità, ma senza mettere in dubbio, in privato, che il sistema schiavistico genera “crescita economica”. È inutile dire che molti sacerdoti del neoliberismo hanno sostenuto in diversi momenti che “un sistema libero dovrebbe consentire all’individuo di vendersi in schiavitù”. Lasciamo da parte, ma sullo sfondo, tutte le argomentazioni neolib finalizzate a ridurre le persone in “capitale” “imprese” “schiavi”. Lasciamo da parte anche Marx. In questo articolo definiamo sfruttati e schiavi i lavoratori che sono costretti a subire contratti capestro, limitazioni nelle rivendicazioni salariali e nelle richieste di miglioramento delle condizioni di lavoro. Definiamo schiavi i cittadini ai quali è impedito il pieno esercizio della cittadinanza.

In alcune aree della Basilicata, assistiamo a condizioni di schiavitù, senza che queste c’entrino con teorie e appartenenze ideologiche dei protagonisti. È una rozza questione di soldi e di consensi. Alcuni degli imprenditori-sfruttatori coinvolti in situazioni e tentativi di schiavismo non hanno mai letto un libro di autori neolib e non esibiscono a giustificazione dei loro comportamenti argomentazioni teoriche. I lavoratori-sfruttati, anch’essi non legano le loro condizioni a una qualche teoria economica né forniscono basi culturali alle loro (mancate) rivendicazioni. Sia gli sfruttatori sia gli sfruttati sono motivati esclusivamente da ragioni di denaro: profitto e salario. E questo è un limite che impedisce la formazione di una coscienza politica collettiva.

In alcune aziende dell’indotto petrolifero, per esempio, la situazione è paragonabile, con le dovute differenze, a quanto accade in Amazon, Uber, eccetera. Uomini e donne trattati come i portatori di lettiga dell’antica Roma. Mancando un fondamento culturale e “ideologico” agli sfruttati della Basilicata, il rischio è che, metaforicamente parlando, alla lunga si diventi portatori di lettiga non per necessità, ma per ostentazione di status: “io sono il prediletto del mio padrone”. Per la verità questa situazione è già presente, lo sanno bene quei lavoratori e cittadini che in un modo o nell’altro provano a reagire allo schiavista e vengono sgambettati, spiati, traditi dai loro colleghi o concittadini “prediletti dal padrone.”

Senza giri di parole, esistono in Basilicata vere e proprie zone franche dove lo “schiavismo” è a base del funzionamento della società locale ed è funzione dell’economia locale. Lavoratori costretti a restituire al titolare dell’azienda una parte del salario, operai inquadrati con qualifiche più basse di quelle previste dal contratto, altri dipendenti costretti a tacere di fronte a malversazioni e a condizioni di lavoro indesiderate. Disoccupati tenuti nel freezer dell’immobilismo in attesa che il “santo di turno” li collochi in una delle attività dei soliti pochi prenditori e dominatori del territorio. Cittadine e cittadini che preferiscono tacere le ingiustizie, scelgono di non ribellarsi, per paura o per convenienza nella speranza di ottenere clemenza e favori dai padroni.

In queste zone franche il “governo” del territorio e il controllo sociale si sviluppano anche su altri livelli. I prenditori arraffano tutto quanto è possibile arraffare, costruiscono capannoni dove ad altri sarebbe impedito, raggirano norme e regole con la certezza dell’impunità, decidono insieme ai loro referenti politici chi deve mangiare (lavorare), e chi no, chi deve superare una selezione e chi no, chi deve vincere un appalto e chi no.

I politici, certi politici, che servono da copertura a questi sistemi locali di neoschiavismo, hanno le loro convenienze. In apparenza e pubblicamente disprezzano la mortificazione delle libertà, lo sfruttamento, la negazione dei diritti, ma nel segreto delle taverne ammettono che quei sistemi sono necessari alla sopravvivenza delle loro carriere. In altro modo i prenditori giustificano le numerose “devianze” col fatto che grazie a loro tante famiglie hanno il pane sulla tavola. “Noi diamo lavoro a gente del posto”, “noi diamo da mangiare.” Insomma, sono degli eroi. In fondo anche certi politici trattano il partito o la corrente di partito come un’impresa in cui i voti sono risorse per ottenere il controllo di cariche e incarichi. Dunque, al vertice delle zone franche, ci sono i prenditori di soldi e i prenditori di voti accompagnati da una parte di quei soldi.

Che fare? Le persone che si ritengono più o meno libere, le organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e dei lavoratori, le istituzioni che dovrebbero garantire l’esercizio dei diritti e il rispetto delle leggi, diano segnali più incisivi di reazione, anzi reagiscano pesantemente senza farsi intrappolare nei vertici del “governo” delle zone franche.

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