Mafia nel Metapontino: la controffensiva criminale in un territorio “disarmato”

E' un errore pensare che gli incendi di questi giorni a Scanzano Jonico siano semplicemente legati all'attività di estorsione intimidatoria e violenta finalizzata al denaro. La Basilicata rischia grosso, più di quanto si legge nei rapporti degli organismi antimafia

“Non abbassare la guardia”. “Solidarietà alle vittime”. “Bisogna condannare”. Sono alcune delle frasi che ricorrono nei discorsi e nei comunicati stampa in seguito a delitti commessi da organizzazioni criminali a danno di persone e cose. Dichiarazioni di circostanza che, ad ogni modo, sono importanti: meglio di niente.

Tuttavia, se dovessimo dare importanza a queste dichiarazioni, finiremmo nel panno della delusione. Gli episodi criminali si ripetono con una certa frequenza e dunque dovremmo concludere che nessuno condanna e molti abbassano la guardia. È evidente che questo ragionamento lascia il tempo che trova. La verità, crediamo, sia un’altra, molto più complicata. Dopo la “pace pandemica” degli ultimi due anni, i criminali organizzati sono tornati a seminare nelle loro attività illecite. Hanno fame di raccolto e dunque puntano alle attività che nell’immediato dovrebbero garantire reddito: la stagione estiva, le vacanze, il mare, i lidi, gli alberghi, i bar…

Dov’erano questi signori criminali nei mesi scorsi? Erano impegnati nel narcotraffico e nel coordinamento dei pusher di paese, nell’attesa che qualcuno decidesse la ripresa della controffensiva con azioni mediaticamente eclatanti ed esemplari. E questo in prossimità dell’inizio del processo a carico del clan Schettino.

La struttura camaleontica e salamandrina della criminalità organizzata ha dunque dato nuovi segnali di vita negli ultimi 5 giorni. Segnali che, senza molte forzature, possono apparire come una sfida agli apparati dello Stato. Un affronto alla neonata sezione Dia in Basilicata, un avvertimento a chi dovrà sentenziare nel processo contro i mafiosi del Metapontino.

I clan non muoiono con gli arresti e i processi, al contrario cambiano colore come i camaleonti, si ricostruiscono come i tessuti della salamandra, vengono sostituiti, rimpiazzati dalle seconde file, o dai capi di altri gruppi con l’ambizione di conquistare spazi e territori.

Dobbiamo ripeterci, rivolgendoci soprattutto ai politici e alle organizzazioni sindacali di rappresentanza delle imprese: è un errore pensare che i roghi di Scanzano, come tanti altri crimini mafiosi siano semplicemente legati all’estorsione intimidatoria e violenta finalizzata al denaro. Si tratta, come sempre ormai da anni, di ben altro. Questi signori criminali puntano alla capitalizzazione sociale del territorio, all’affermazione di un potere non solo su interi settori dell’economia locale, ma sulle persone. Il pizzo è una tassa che ripaga un servizio obbligatorio, imposto, di protezione. Ma proprio perché è una tassa implica un potere “istituzionale”, il riconoscimento della prerogativa a cui la criminalità ambisce: il controllo economico e sociale dei luoghi. Quegli incendi potrebbero anche diventare un servizio a chi già paga o a chi ha legami con certi ambienti: “ti difendiamo noi dalla concorrenza”.

In questo quadro la magistratura e le forze dell’ordine hanno dei limiti: possono soltanto fare prevenzione e repressione dei crimini, nell’ottica dell’ordine pubblico.  E crediamo che, seppure nella ristrettezza di mezzi e circostanze, da qualche anno stiano facendo un buon lavoro. Ma non possono intervenire con efficacia sul tessuto delle relazioni “patologiche” tra territorio sociale, economia, politica- criminalità organizzata. È questo il punto, da sempre. Senza la denuncia degli imprenditori vessati, dei commercianti abusati, cambia poco sul fronte dell’espansione della mafia. Senza le barriere sociali e politiche capaci di respingere i tentativi di infiltrazione criminale, nulla cambierà. Ne parliamo da anni, e infatti nulla è cambiato, anzi la situazione peggiora.

La controffensiva criminale in quel territorio non si fermerà nei prossimi giorni. I controlli militari serviranno da deterrente, ma non fermeranno la strategia della paura, e della sfida alle forze dell’ordine, decisa in ambienti bucolici in qualche “masseria” della zona.

E dunque smettiamola con “non abbassare la guardia”. Non basta condannare, ma occorre denunciare. Certo, non è facile, non è facile perché il silenzio, la paura, diventano sempre più garanzia di tutela personale, di “legittima difesa” da probabili ritorsioni. E questo per almeno due ragioni di fondo: il sistema politico locale appare incapace di fornire garanzie anzi, la sensazione è che la politica in certi casi sia complice di un modello di controllo del territorio condiviso con personaggi oscuri e ambigui e con mafiosi conclamati; la giustizia ha i suoi limiti di garanzia.

È accaduto al compianto Gaetano Fortunato e a tanti altri come lui: da coraggiosi accusatori di mafiosi e malfattori, si sono ritrovati imputati e vittime sacrificali di percorsi giudiziari massacranti. E poi, ripetiamo anche questo, la mancanza di sanzioni sociali nei confronti di delinquenti certificati è l’indizio di un senso civico distrutto. Il caffé al bar col mafioso o col politico condannato in primo grado, e poi prescritto in secondo grado, bisognerebbe evitarlo. Sono alle porte le elezioni amministrative in alcuni Comuni del Metapontino, vedremo.