Il benaltrismo, il rovescismo e l’amaro lucano

Aprire un pubblico dibattito in Basilicata è un’impresa titanica, un discorso culturale critico è quasi impossibile da far vivere

Aprire un pubblico dibattito in Basilicata è un’impresa titanica, un discorso culturale critico è quasi impossibile da far vivere. Nessuno vuole ascoltare davvero ma tutti puntano il dito, colpevolizzano chi prende la parola per manifestare dissenso su temi culturalmente sensibili. Se dopo quasi ottant’anni siamo ancora qui a fare i conti con l’eredità del famoso libro Cristo si è fermato a Eboli, vuol dire che il revisionismo storico-letterario è vivo e lavora contro di noi.

Carlo Levi ha toccato il nostro cuore antico, sacro – almeno il mio – e noi lucani abbiamo toccato il suo. Levi non ha parlato solo della nostra povertà, ha analizzato il nostro sentimento del mondo. Grassano la Gerusalemme immaginaria e Aliano l’isola tra i burroni dove visse l’esperienza del confino 1935/36, nelle terre del profondo sud che lo cambiarono per sempre, come uomo e come artista. Imparò a conoscere un’altra forma di dolore umano, diverso da quello dei perseguitati politici dell’Italia fascista. Ed è proprio lui a scriverlo «M’avete fatto umano/ baci dolenti, terre nascoste / dove un dolore antico era prima del mio arrivo».

Quel dolore lo turbò profondamente, quei poveri contadini lucani «corazzati di silenzio e di pazienza, taciturni e impenetrabili» trattati alla stregua di animali da soma, con il loro dolore muto e con la sconfinata pazienza – unica strada per poter sopravvivere – cambiarono per sempre Carlo Levi. Attraverso la scrittura del Cristo, per la prima volta i contadini lucani da oggetto di cultura sono diventati soggetto di cultura.

È stata la politica del dopoguerra con Togliatti prima, nel 1948, a chiamare i Sassi di Matera “la vergogna nazionale” e De Gasperi dopo, nella sua visita nel 1950 “la povera gente dei Sassi non può continuare a vivere come bestie” prendendo finalmente coscienza dello stato delle cose e adoperandosi per cambiare quella condizione.

I lucani, o meglio la classe politica ha vissuto tutto questo come una maledizione. Matera, la pietra dello scandalo, e solo nel 1952 il primo ministro De Gasperi firmò il documento per lo sfollamento dei Sassi e il cuore di Matera venne svuotato della sua gente.

I Sassi restarono disabitati per decenni immobili e ripudiati a raccontare la loro storia a un mondo che non era pronto per ascoltare. Sono passati molti anni, una lunga traversata, un percorso di maturazione fino ad arrivare al 1993 con la proclamazione dei Sassi Patrimonio mondiale dell’Umanità e successivamente nel 2014/2019 Matera Capitale della cultura europea.

L’antilevismo lucano è anacronistico, questo sì che è fuori dal Tempo e dalla Storia.

La Lucania così chiamata in epoca fascista, per essere nuovamente sostituita da Basilicata nel 1948, con l’avvento della Repubblica si è modernizzata ma conserva ancora un risentimento antichissimo e potente, una struttura interna profondissima che impedisce uno scatto in avanti, ridotta al silenzio senza una visione del futuro. Ed è, forse, proprio questa dualità identitaria il problema.

Intellettuali vittime di provincialismo, animati da rancore e persone noiosissime che invece di sostenere l’amorosa difesa di Levi e del Cristo mi attaccano insidiosamente, come se fossi stata io e non Gaetano Cappelli ad essere oltraggioso verso un gigante della storia, come se fossi stata io a costruire la “polemica strapaesana” che da anni lo scrittore contemporaneo alimenta insieme ai suoi amici.

Ho preso pubblicamente la parola, non aspetto che qualcuno me la conceda, ho risposto al nativo lucano perché non voglio essere complice della cultura del risentimento. Dobbiamo imparare ad accettare di essere stati scrutati in quel modo. Lo sguardo degli altri è necessario. Quando qualcuno ci guarda, si prende cura di noi, se nessuno posa lo sguardo su di noi non esistiamo, sono gli altri che chiamandoci per nome ci fanno vivere.

Si può parlare di Carlo Levi con chi si vergogna della passata miseria della Lucania? Sì, ora più che mai è necessario farlo. I mie interventi pubblici nascono dalla necessità di pacificare definitivamente questa nostra memoria collettiva. È rimasto solo Gaetano Cappelli e il suo antilevismo fuori dal Tempo e dalla Storia.

Si sa, il pubblico dibattito ha i suoi rischi e il suo inevitabile bagaglio di accuse: “attacco spropositato, ha personalizzato la questione, meglio non dargli importanza, non coglie il carattere ironico, ingenuamente dissacratorio, puramente letterario, dietro queste polemiche ci sta altro, mo’ non esageriamo nell’altro senso, e così via”. Almeno Cappelli con i suoi cinguettii risponde direttamente, certo utilizza l’argomento più volgare ma questo è il suo stile: “ebbasta no! i vostri 15 min di celebrità ve li pur siete cconquistati”.

Il benaltrismo lucano cerca sempre di spostare l’attenzione su altro, dando origine a un circolo vizioso che impedisce sul nascere qualunque tentativo di instaurare un dialogo costruttivo. Il benaltrismo ci permette di non fare i conti con noi stessi e con la nostra storia. Ma ormai chi più studia la storia?

Il cliché è sempre lo stesso: prima t’ignorano, poi fanno finta di non aver letto l’articolo, infine iniziano a parlare senza mai citare la fonte. Ed è così che prende vita la nuova via Pretoria digital e si entra nel vortice dei post sparsi nell’etere. Sono tutti gelosi della propria home di Facebook che aprono al mondo in un dialogo sordo e muto, in cui si capiscono solo tra loro.

A quei lucani che non lo nominano, agli isolati e boicottati dal sistema, dico solo tenetevi il cappellismo ma per favore quella bizzarra analisi del testo non chiamatela “critica letteraria” è solo bullismo letterario, una nuova forma di distrazione di massa. Questi sono i fatti.

E quando scrive sul giornale redivivo «non salva proprio nessuno tra i notabili, nemmeno tra i medici e i farmacisti, al Sud quasi sempre colti e liberali. Qui, no. Qui son tutti avidi, meschini, ignoranti» il Cappelli sostiene non solo il falso ma ci fornisce anche la prova che il famoso libro non l’ha letto per intero, forse l’ha letto di sera. Basta semplicemente andare alla fonte, Carlo Levi scrive: «Il dottor Zagarella, podestà di Grassano, non amava, a differenza di don Luigino, fare il poliziotto, e lasciava che dei confinati si occupassero i carabinieri. Era un medico serio e colto e, grazie a lui e a un altro dottore, il dottor Garaguso, che aveva fama di particolare competenza, Grassano era l’unico paese della provincia dove si facesse qualcosa per la lotta antimalarica, e con qualche buon risultato. Questi due medici erano un caso eccezionale e fortunato».

Il Cristo è parte della nostra identità, ha generato un vortice di vita. Levi ha creato una comunità intorno al suo libro, fa incontrare le persone, tutti noi e non solo noi, ne parliamo ancora dopo ottant’anni dalla sua pubblicazione. Il nipote del podestà medico di Grassano è diventato il mio migliore amico, Matteo, conosciuto fuori dalla Basilicata, colto e preparato come suo nonno, così solo per fare un esempio dei notabili così cari al Cappelli ma ne potrei fare tanti altri sui contadini. Mr. Cappelli, I presume or I suppose.

L’atto d’accusa «Ce l’ha coi terroni» il Cappelli doveva rivolgerlo a Salvini non a Carlo Levi, quando venne in Basilicata a raccogliere voti per far eleggere il primo sindaco leghista della città capoluogo di regione del Sud nel 2019. In quello storico ballottaggio che fece perdere – per una manciata di voti – al prof. Tramutoli le elezioni, uomo carismatico e coraggioso che con la sua squadra organizzò la resistenza, e lottò affinché ciò non si avverasse, salvando la dignità ai potentini che si sono opposti, ed anche la mia.

Il soldato Cappelli non si ferma mai, vuole riscrivere la storia e dopo aver issato il vessillo al grido “viva la basilicata de-levizzataahahah bonnuì!” si rivolge al partigiano napoletano Antonio Amoretti come se fosse un suo pari grado. Al partigiano che ha fatto la storia e che ha la sola colpa di ricordargli che è Napoli la prima città del sud a liberarsi da sola dal nazifascismo. Il letterato non prende mai carta e penna e continua a cinguettare: “suvvia gentile signor partiggiano Amoretti, non se la prenda. ledate parlano chiaro. i napulitani si ribbelarono ai nazzi tra il 27 e il 30 sett 43. Matera s’era giá ribbellata e libberata il 21 sett 43! maquesto che cambia? O Napoli resta semb nu squadrone”.

Pensa sempre di cavarsela così, con la solita sciatteria linguistica e con una risata che ci seppellirà tutti.

La storia, anche in questo caso, è diventata un’opinione, e la narrazione storica un confronto tra opinioni diverse, tutte allo stesso modo legittime, ma tra esse vincono quelle meglio sponsorizzate, con la complicità dei social, luoghi virtuali più veri della realtà stessa: è così che ci ritroviamo il rovescismo lucano, fase suprema del già noto revisionismo.

L’insurrezione e la forza vitale del popolo napoletano con il loro disperato bisogno di libertà, con le sue memorabili Quattro Giornate sono state consacrate non solo dagli storici ma anche dal registra Nanni Loy nel 1962, ricevendo due nomination agli Oscar. La strage di Matera si è dovuta accontentare dell’attore Ulderico Pesce e del suo teatro.

Contestare pubblicamente l’inchiostro amaro di Cappelli su Carlo Levi è (per me) una necessità. L’aggettivo amaro è un caleidoscopio di sensazioni ed emozioni. Quante volte abbiamo sentito dire: ho l’amaro in corpo, ho ingoiato un boccone amaro. In senso figurato descrive il dolore, il vivo dispiacere, un dolore interno. Non è una cosa semplice, innocente o insignificante essere amari. Così come l’amarezza non può mai costruire o edificare: è una radice che cresce generando divisioni, accuse e persino odio.

Quell’amaro va combattuto e per riuscirci bisogna usare la forza della parola che tutto trasforma. Le comunità non si possono imporre per decreto, si costruiscono, si scelgono giorno dopo giorno.

Essere lucani è una cosa complicata, una cosa che per capirla non basta una vita, siamo tante isole tra i burroni, ognuno con le proprie solitudini, con i propri deliri di generosità o di grandezza, e sempre in compagnia di uno smisurato orgoglio.

I lucani contemporanei, o 2.0, hanno paura della libertà: quella paura che nasce dall’indisponibilità a fare fino in fondo i conti con la propria storia, a guardare l’abisso che è dentro di noi, prima ancora che fuori di noi. Quella paura che porta a tracciare confini immaginari ma granitici: ecco perché dividere il mondo tra lucani e non lucani appellandosi a un diritto di confini arcaici, mi fa commuovere amaramente.

La Basilicata non è una Repubblica indipendente, è stata e deve rimanere nella storia ma la storia bisogna raccontarla tutta senza omissioni o rovescismi.

Sono andati via a centinaia di migliaia, nel secolo scorso, dalla Basilicata e ancora continuano a farlo. L’emigrazione è anche una ribellione culturale.

La letteratura – ci insegnano i grandi della storia – inventa la verità e scopre la realtà, la letteratura è una difesa contro le offese della vita.

La letteratura ci salva la vita, almeno la mia, ed è con questo spirito che propongo alla città di Potenza, dove sono nata e cresciuta, di attingere dalla letteratura usando i titoli dei romanzi per dare il nome a una nuova strada o ad una piazza. Chiedo gentilmente al sindaco leghista, Mario Guarente, di chiamarla Paura della libertà di Carlo Levi. Che diventi un monito per recuperare la propria libertà e per liberare Levi dal suo libro più famoso!

Fiduciosa che l’amaro lucano si trasformi in amore lucano. Che è amore vero solo finché sa prendersi cura e rispettare le verità della nostra terra, senza paura di prendere la parola se necessario. E con questo accorato appello chiudo la trilogia sul cappellismo e l’antilevismo lucano di ritorno. Graziella Salvatore, sociologa

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