Autonomia differenziata: oltre il tecnicismo, l’analisi storica
Una riforma anacronistica che impone un nuovo spirito risorgimentale
Il dibattito sull’AUTONOMIA DIFFERENZIATA non può ridursi al tecnicismo, in particolare le voci contrarie non possono fermarsi a far valere ragioni di merito tecnico, che pure hanno la loro importanza e nascondono aporie profonde, come la definizione del concetto di essenzialità nella fase di individuazione dei Livelli essenziali di prestazione (LEP), ma per un’analisi completa sulla natura della riforma federalista immaginata e approvata nei primi passaggi parlamentari dalla maggioranza di centrodestra che governa l’Italia, occorre valutare il quadro culturale di riferimento e soprattutto contestualizzarlo alla luce del processo storico di formazione nazionale e al contesto geopolitico nel quale ci troviamo oggi.
La storia del nostro Paese ci consegna una continua e progressiva tendenza all’unità, che parte da lontanissimo, sin dalla rottura dell’unità politica subito dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel V sec. e giunge alla Seconda Guerra d’Indipendenza, con una prima unità, ancora provvisoria, nel 1861, fino a quella definitiva del 1870 che si completerà nel 1919 con le “terre irredente.”
Per quattordici secoli, millequattrocento anni, l’Italia è stata un’espressione geografica, per citare Metternich, politicamente disunita, vittima dei sommovimenti geopolitici che la resero, per alcuni frangenti della sua storia, nulla di più che un campo di battaglia.
La spinta unitaria emerse dalle pagine dei più grandi intellettuali della nostra storia, Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini, Manzoni, Leopardi; fino a quando lo spirito risorgimentale nel quale era stato allevato Vittorio Emanuele II e soprattutto la lucidità politica di Cavour costruirono l’Italia unita e gli diedero una forma realmente unitaria, a scapito delle idee federaliste che pure si diffondevano per i club intellettuali di metà ottocento, si pensi allo slancio repubblicano-federalista di Carlo Cattaneo o al neoguelfismo di Vincenzo Gioberti.
Da quell’unità nacque un primo scontro fratricida, dall’annessione all’Italia sabauda dei territori meridionali, un mix di banditismo e legittimismo borbonico animarono una delle pagine più interessanti e discusse della storia del processo di costruzione della nostra nazione.
Un primo vento autonomista spirava da sud, quella ferita in alcuni ambienti meridionali, acuita dal crescente divario tra il Sud e il Nord del Paese, ha generato una visione antiunitaria e revisionista, che in parte è proseguita nel tempo e continua a prendere corpo in alcuni scantinati pseudo-intellettuali e assolutamente dogmatici.
Sulla visione conservatrice e legittimista si impose, sin da subito, un’idea di meridionalismo unitario, plasmata e rappresentata dalla prima generazione di Parlamentari eletti nei collegi del sud, Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti su tutti, figure di cui la politica lucana dovrebbe difendere la memoria e andare orgogliosa, oltre che farsi prosecutrice della loro battaglia ideale.
La loro riflessione partiva dalla necessità di un’integrazione del Meridione nell’Italia postunitaria, in un quadro generale di unità vera per superare il dualismo nord-sud. Il ceto politico e intellettuale meridionale contribuì fortemente all’affermazione di una cultura dello Stato unitario, si pensi alla grande esperienza di Pasquale Stanislao Mancini, napoletano, più volte ministro, eletto deputato del regno per nove legislature, da fine giurista svolse un ruolo fondamentale nel processo di unificazione legislativa e amministrativa del Paese.
La sfida della coesione territoriale e del superamento della questione meridionale venne recepita dalle generazioni politiche successive, i partiti della Repubblica hanno ereditato questa sfida. Come può interpretarsi l’impegno di De Gasperi e di Togliatti, un trentino e un genovese di nascita, per il risanamento dei Sassi di Matera se non come il tentativo di proseguire nella direzione di una coesione reale del Paese. Come pure la riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno fondata nel 1950 da De Gasperi e Pasquale Saraceno.
Occorre raccontare questa storia per meglio contestualizzare la battaglia contro l’autonomia differenziata, la storia del nostro Paese è ricca di generosità, di solidarietà, di una tendenziale e progressiva unità politica. Le autonomie locali istituite con la Costituzione e le successive con la creazione delle Regioni nel 1970 erano concepite sempre in un quadro unitario del Paese, nell’ottica di un miglior funzionamento dei territori, cellule che avrebbero garantito la stabilità e lo sviluppo dell’organismo-nazione.
Quest’ultimo concetto è totalmente assente nella mente di chi ha affrontato la sfida del regionalismo come un affrancamento dallo Stato centrale e da “Roma ladrona” di bossiana memoria, è infatti con la Lega Nord dagli anni Novanta che si apre la seconda faglia autonomista del nostro Paese, questa volta da Nord, un processo politico privo di un’elaborazione intellettuale, come avvenne per la questione meridionale, ma fermo ad un’idea secessionista che emerge in maniera chiara sullo sfondo del DDL Calderoli.
La riforma in questione appare quindi completamente in controtendenza con il processo evolutivo della storia italiana degli ultimi secoli, un ritorno agli Stati regionali forse? E come possiamo leggere questo disegno alla luce della realtà geopolitica del nostro tempo,
l’UE ha indubbiamente un problema di coesione interna tra i suoi membri, posizioni divergenti in politica internazionale, divisioni anche sulle politiche da intraprendere nei confini dell’Unione, diversi ordinamenti politici, diverse gestioni della giustizia, perfino diverse interpretazioni dello Stato di diritto. 27 posizioni differenti che con quella della Commissione Europea diventano 28, con l’autonomia differenziata si aggiungerebbe la voce delle 20 regioni italiane, alla voce del Premier.
In un clima di incertezza internazionale con l’America che sta per tornare fra le braccia di Trump e che si disinteresserà sempre più alle questioni di oltreoceano, con la Russia che continua una guerra di conquista alle porte dell’Europa, tensioni crescenti in medio-Oriente e con gli stati emergenti dei Brics che intendono accrescere la propria influenza sul mondo, cosa potrà contare un’Italia divisa in un’Unione Europea divisa? Dovremmo discutere di una maggiore coesione europea e invece ragioniamo di una minore coesione italiana.
Tutte queste ragioni di carattere ideale si aggiungono alle controindicazioni tecniche e ci impongono una posizione chiara, al tentativo di stravolgere l’ordine progressivo della storia del nostro Paese occorre rispondere con un nuovo spirito risorgimentale, realmente patriottico, non nazionalista e repubblicano, che riabiliti il ruolo degli intellettuali, la funzione educativa e politica dei partiti e l’organizzazione democratica della società civile. Giuseppe Santochirico, direzione regio ale PD