Spopolamento, il declino non è un destino
Contro l’eutanasia dolce delle aree interne, per una stagione del ritorno come scelta di vita. La Basilicata può ancora diventare un laboratorio del possibile
Nel nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne 2021–2027 (PSNAI), approvato con colpevole ritardo dal Governo Meloni, si legge una frase che dovrebbe allarmare ogni cittadino: “Accompagnamento verso il depopolamento irreversibile. Queste aree non possono porsi obiettivi di inversione di tendenza.”
Una formula glaciale, tecnocratica, che in realtà contiene una decisione politica netta: una parte del Paese va lasciata morire. Con ordine, con metodo. E mentre si cerca di smantellare ogni forma di fine vita, si affida la parte più fragile del Paese ad una forma di eutanasia dolce.
Come hanno denunciato Alfonso Scarano su Il Fatto Quotidiano e in modo più radicato Michele Finizio su Basilicata24, questa non è una strategia di rilancio. È un piano di ritirata istituzionale. Un’ammissione di resa camuffata da programmazione.
Eppure, in quelle “aree a declino irreversibile” vivono milioni di persone. E tra quelle, ci siamo anche noi: chi è nato nei piccoli comuni della Basilicata, chi ha visto chiudere scuole, svuotarsi piazze, fuggire i giovani. Ma non per questo ci rassegniamo a essere archiviati come inservibili. Chi conosce la Basilicata – quella che si estende ben oltre i capoluoghi e i capannoni della logistica – non può che sentire un dolore profondo di fronte a questa logica.
Sentirsi un traditore
La lettura di quei documenti ha suscitato in me un sentimento che conoscono in molti: un misto di rabbia, impotenza e vergogna. È il dramma dell’emigrante. Il dramma di chi per andare incontro ad esigenze personali, convive con un cuore a metà. Il dramma che si prova partendo verso il proprio futuro, forse; sicuramente lasciando la propria anima.
Io – come tanti altri – vivo altrove. Al Nord. Appartengo alla schiera di chi vive in città dove i servizi esistono, e vengono implementati, dove non si parla di “accompagnamento”, ma di sviluppo. Di progresso. Ecco, vedere, come nel mio caso, una città continuare ad evolversi come Bologna, e la mia Terra “destinata al declino” mi porta a farmi mille domande, mille dubbi.
Mi capita spesso ormai di chiedermi, addolorato: sto voltando le spalle alle mie radici? Sto accettando in silenzio l’idea che il mio Paese sia fatto solo di città e capoluoghi? Sto tradendo me stesso? Sto abbandonando definitivamente la piazza, la campagna, l’orizzonte, che mi ha cresciuto?
Da questi interrogativi nasce una scelta: provare a tornare. Non per romanticismo. Nemmeno per eroismo. Tornare per darsi da fare. Per impegnarsi a 360° a invertire la tendenza. Perché tornare oggi, in una stagione in cui il Sud viene spinto dolcemente verso l’eutanasia demografica, è quasi un atto politico.
Non per tornare “a casa”, ma per tornare a fare casa. Insieme a chi resiste. Insieme a chi vuole ancora immaginare un futuro.
La Basilicata Futura
La mia regione è al centro del cratere. Sappiamo di essere dentro quel perimetro segnato in grigio: a bassa densità, lontano dai grandi centri, poco servito, poco rappresentato. Ma sappiamo anche che non siamo scarti di Paese. Non siamo rimanenze da razionalizzare. Non siamo zavorra da ridurre con eleganza contabile.
Quello che è mancato in questi anni non è la vitalità dei nostri paesi, ma la visione di una Governance che sappia accompagnare non alla fine, ma alla rinascita. Un piano strategico degno di questo nome dovrebbe ripartire da una domanda radicale: che Paese vogliamo essere? Un Paese Italia che protegge solo i centri produttivi e metropolitani, o uno che scommette sulla coesione territoriale, sull’equilibrio, sulla diversità dei modelli di vita?
Diciamolo con chiarezza: la Basilicata non è condannata. È stata trascurata, tradita, mal governata, frazionata da una classe dirigente miope, che troppo spesso ha usato il denaro pubblico come ammortizzatore sociale invece che come leva di sviluppo. Troppe risorse sono state gestite male, troppe occasioni perse e tanta, tanta approssimazione e sottovalutazione, quando il problema-declino era ampiamente dominabile.
Basti pensare al destino dei GAL (Gruppi di Azione Locale), nati per sostenere progettazione dal basso e innovazione territoriale, che si sono ridotti alle volte quasi a bancomat clientelari, colonizzati da interessi partitici e logiche di spartizione. Altro che sviluppo integrato.
All’Università della Basilicata, che dovrebbe essere motore di ricerca e pianificazione, e che è stata spesso ignorata o tenuta ai margini delle politiche territoriali. Invece di strutturare sinergie, si è scelto di disperdere risorse e idee in micro-progetti scollegati tra loro.
Manca da anni una vera concertazione istituzionale e sociale. Non c’è stata una regia pubblica capace di costruire un piano per il futuro con sindaci, comitati, associazioni, cittadini, esperti. Cercando di affrontare la realtà con le altre regioni del meridione, con pratiche politiche condivise. Non c’è stata visione. Solo tattica e navigazione a vista.
Si sarebbe potuto intervenire in modo più netto sull’imprenditoria giovanile, sul sostegno alle giovani coppie e alle famiglie, per provare a dare — quantomeno nel campo del tentativo — un impulso politico alla denatalità. E magari, emulando quella che fu la stagione di “Bollenti Spiriti”, in Puglia, avviare una reale ed organica stagione di riforme in materia di politiche giovanili. Ma forse, l’urgenza quotidiana ha tolto dalla vista il bisogno di occuparsi del domani.
Eppure, nonostante tutto questo, la Basilicata può ancora diventare un laboratorio del possibile. Ma serve uno scatto netto. Una rottura. Serve una politica che non accompagni, ma rilanci. Che non gestisca il declino, ma costruisca alternative. Serve il coraggio di un’intera regione che sa che questa è l’ultima spiaggia, e che forse, siamo già in ritardo.
Con l’umiltà di chi si vuole “dar da fare” ci sono almeno un paio di direzioni da cui si potrebbe partire.
–Unioni territoriali forti: basta con l’illusione dell’autosufficienza comunale. Occorrono alleanze amministrative volontarie, con progettazione condivisa, servizi integrati, e una governance finalmente efficace. Diritti di cittadinanza garantiti ovunque: sanità territoriale, scuole-polo, trasporti interni, connessione digitale. Senza questi diritti, ogni discorso sul “restare” o sul “tornare” è vuoto.
–Welfare di livello
Provare a trovare risorse che permettano di garantire servizi di eccellenza. La sanità lucana è un dramma, da tempo, e non ripeterò prediche già fatte (meglio) da esperti e cittadini, serve una reale inversione di marcia, la volontà politica di garantire un welfare più che dignitoso, attestando i livelli dei servizi essenziali a standard d’eccellenza, in ogni borgo.
–Politiche attive per il rientro: servono incentivi strutturati per giovani e famiglie che vogliono tornare: da un piano casa a mutui agevolati, dal lavoro – con bandi sulla scorta di Resto al sud, immaginato magari con più incisività pro ritorno- alle opportunità di studio, con scambi e Erasmus che permettano di conoscere la nostra regione.
–Transizione ecologica e produttiva: comunità energetiche, agricoltura rigenerativa, recupero delle terre incolte, dei boschi. Garantire il monitoraggio e la garanzia di un livello alto della qualità dell’aria. Le aree interne possono essere il cuore verde e sostenibile del Paese. Soprattutto in un’epoca in cui nelle grandi città la qualità dell’aria è pessima.
–La cultura e la partecipazione come motore di comunità: i borghi devono tornare a essere luoghi dove si produce cultura, pensiero, relazioni. Non musei a cielo aperto, ma spazi vivi. Dove sviluppare forme di co progettazione, aumentare il senso di comunità e fare sì che queste siano coinvolte nei processi decisionali, non solo consultate a valle. Basta strategie, piani, scritti da chi non conosce il territorio. Serve coinvolgere chi ha ancora anni da vivere lì, chi può mettere in gioco idee, studio, rischio
La cultura popolare lucana, autentica, dalla letteratura all’enogastronomia, non ha rivali, ecco perché può essere un volano che porti alla scoperta dei tanti luoghi inesplorati e condannati (dal governo) al declino. Serve immaginare nuovi piani di rilancio, di sviluppo industriale, ambiziosi, senza timore di voler “troppo”. Serve agire con coscienza e conoscenza sì ma anche con una sana dose di sogno e utopia.
L’Italia, Paese di paesi.
Il “Piano strategico nazionale per le aree interne” viene descritto dagli articoli come un suicidio assistito, con senso, perché dietro l’apparente razionalità di una mappa che distingue territori “salvabili” da territori “da accompagnare al tramonto”, c’è una scelta politica netta. Qualcuno ha deciso che una parte del Paese non ha più diritto al futuro. Oggi il Governo ha scelto il ritiro, l’accompagnamento silenzioso al tramonto. Ha scelto l’abbandono sancito per decreto. Ha rinunciato a una parte del Paese, a milioni di cittadini, a interi territori, alle loro tradizioni, le loro dignità. In fondo, ha rotto il patto costituzionale che ci tiene insieme come Repubblica.
E allora, con la speranza che un moto di orgoglio si risvegli in tante e tanti, sognando che il dramma dell’emigrazione generi voglia di crederci ancora, per fermare il declino, non resta che augurarci una stagione del ritorno. Una stagione di impegno, di presenza. Di perseveranza. Non per nostalgia. Né per eroismo.
Ma per visione. Perché tornare non è solo un fatto personale. È il desiderio feroce di evitare che cali il sipario sulla nostra storia. È il bisogno concreto di vedere riconosciuti gli stessi diritti e le stesse opportunità, al bambino lucano come a quello emiliano. È un fatto collettivo. Crediamoci.
Giuseppe Lopergolo *, studente lucano laureando in Giurisprudenza all’Università Alma Mater di Bologna, città dove è domiciliato.