Le donne di Basilicata negli Anni 60 nel libro di Monica Cirigliano

Monica Cirigliano ha pubblicato il suo romanzo d’esordio “Stesso destino, diversa sorte” (Albatros,2014,pp.185) raccontando l’eterogenesi di due vite rispetto allo stesso ambiente, colto negli anni 1958-1965, con l’aggiunta del riepilogo finale nel dialogo dei due personaggi nel 2005. E’ il tempo a scandire le vite, a segnare i capitoli dei destini di due donne, Angiolina e Nannina, in un borgo rurale italiano, collinare, intriso di mentalità maschilista e bruciato dalle torve dicerie di paese, che tutto infangano e sporcano con lurido cinismo, venato da un’ipocrisia mascherante. Umano, troppo umano: l’origine della morale poggia su fondamenta istintuali, sul travisamento degli impulsi, sulla derisione della felicità altrui.
Il romanzo è scritto con un’intelligenza emotiva che permea tutte le pagine e coinvolge il lettore, colpendolo nella sensibilità etica. Dall’esplosione di rabbia, per ubriachezza del marito Francesco G., uomo dai volti mutevoli, dalla personalità duplice (amorevole o violenta) che apre il racconto, Angiolina è mostrata nella sua drammaticità sentimentale, tesa fra paura e coraggio, fra protezione della prole e dominio del proprio terrore. Il lavoro nell’orto, ogni volta, le consentirà di sopravvivere e ritrovare una serenità che le mura domestiche le negano, fino a desiderare che questo marito se ne stia per sempre fuori, o in lavoro in montagna o meglio in Svizzera, da cui il contatto sarà mediato solo dall’invio di lettere amorevoli.
La Cirigliano ha una penna notevole, la sua capacità di descrizione della furia del maschio, delle esplosioni furiose intrafamiliari ci mostrano il calvario di tante vite, trascorse nelle masserie, che pure possono sembrare un’oasi di tranquillità e ci rinviano ai racconti ascoltati della generazione precedente, che qui lei ricostruisce con perizia sociale. Ma la condanna della (cattiva) scelta matrimoniale ricadrà per intero su Angiolina. Qui la Cirigliano mostra la sua filosofia del destino, un karma a cui gli uomini restano sottomessi, espressione che già Carlo Levi aveva sottolineato per il mondo chiuso ed astorico del suo confino. Non che la Cirigliano non lasci affiorare anche le zone di gioia, quasi con un rinvio a Cechov, e infatti : “All’ombra di quel meraviglioso ciliegio che stendeva i suoi rami al cielo come un gigantesco ombrello, la famigliola (il diminuitivo è accarezzante n.d.r.) si era seduta per fare lo spuntino mattiniero. A vederli così si aveva l’impressione che seduta tra l’erba smeraldo all’ombra tondeggiante del florido ciliegio ci fosse la famiglia più felice e serena del mondo”(p.29). Ma poi riecco le scene di sbornia, gli schiaffi, le ingiurie immotivate – se non dalla profonda paura del maschio -,riecco il diavolo che s’insedia nella testa degli uomini.
L’intera descrizione è la raffigurazione di un uomo ora legato alla razionalità ( alla ricerca del denaro, del miglioramento della famiglia, all’elevazione dei figli) ora preda del vizio che qui ottunde e distrugge, con l’aggravante della derisione sociale, della “gente che si divertiva a far cadere il marito nella fossa del suo vizio” (p.34). E allora, dopo un aborto ed i soliti scontri, meglio evitare ‘scante’ (paure, spavento), meglio saperlo lontano, infatti per “la donna sopportarlo per due/tre settimane all’anno era molto più facile”(p.82). Apollo e Dioniso. Discorso detto e azioni poi perseguite e divaricanti. Intorno, un paese, una società sempre descritta come mefitica, mai ricostruente, mai integrativa, luogo dove mai la coesione sociale, che E. Durkheim elevava a forza vettoriale, riusciva ad operare una fusione rasserenante.
Forse da quest’analisi drammatica della società viene fuori la bellezza e la frequenza delle processioni e delle forme religiose meridionali, che, queste sì, ma soltanto a livello simbolico, operano quell’integrazione e trasfigurazione della socialità che manca nella storia quotidiana. Potenza delle forme del sacro; impotenza e dilacerazione 3 dello spazio profano. E così meglio la Svizzera (mai descritta, se non per accenni); meglio la separazione che sarà il meno peggio; l’emigrazione ha qui il volto della valvola di sfogo dalle crisi culturali intrafamiliari.
La costruzione del romanzo è avvenuta con la tecnica del narratore onnisciente. E’, infatti, la stessa voce narrante ( che può essere identificata anche con la scrittrice) che conduce l’azione e sviluppa le sequenze narrative, scandite dal tempo, per lo più estivo. Altra caratteristica stilistica è l’uso delle parentesi che costituiscono una specie di ‘ fuori campo’ , un intervento esplicativo ulteriore della scrittrice che si ritaglia un luogo dove intervenire per chiarire azioni politiche o fatti storici che potrebbero sembrare esterni al racconto ma con cui ella fornisce spiegazioni o chiarisce il contesto: la costruzione di una strada, la frequenza della scuola che configgeva con il lavoro dei campi, la mentalità dei tempi. La seconda parte del romanzo riporta il lettore all’’Autunno 1958” e presenta la storia, con diversa sorte, di Nannina e Nunzio. E’ sempre il tema della ‘malmaritata’ (al centro di molte canzoni popolari epiche, tema tanto sentito e diffuso), delle altre possibilità, della scelta sbagliata. Nannina, oltre al resto, sa fare la levatrice; Nunzio lavora in un mulino di uno zio, che, dopo peripezie, diventerà sua proprietà e si trasformerà in meglio, all’arrivo della corrente elettrica e dello sviluppo tecnologico, che lega la produzione del mulino alle necessità d’un’industria pastiera di Matera, avviando il decollo economico dell’azienda familiare. Ma anche Nunzio è violento, anzi incontrollata vittima di una “ furia scatenante di Nunzio (che) non era legata esclusivamente alla bottiglia” (p.89). Nel mentre perdurano le difficoltà caratteriali nella coppia, la storia procede con figli e aborti.
La Cirigliano sviluppa il leitmotiv della rabbia e dell’amarezza che si portano dentro le donne e con questo motivo lega il lettore al suo amaro racconto. Ancora ci lascia penetrare nelle dinamiche familiari e pone interrogativi seri alla cultura meridionale, come questo : 4 “Per quante volte ancora avrebbe dovuto avere paura dell’uomo che aveva sposato?”(p.110). Per portare al diapason la tragicità della condizione femminile, con il capitolo ‘Novembre 1963’, la Cirigliano presenta uno dei “lutti più insopportabili” (p.119) per tutti, anche noi coinvolti lettori, la morte della figlia Maddalena, per tisi, accompagnata da un sogno rivelatore e dalla crisi della negazione della realtà e dal vacillare disperante delle certezze religiose. Qui forse la forza della connotazione emotiva raggiunge l’azimut, con una decisa presa al cuore del lettore. Allo scoppio della crisi, nulla può restare più come prima ed ecco la svolta e lo strappo, che la Cirigliano compie con uno scarto narrativo: introduce la figura di un aiutante, di un medico che è il padre Cristoforo del Novecento, che possa sostenere e guidare il personaggio Nannina nel superare la crisi tragica matrimoniale. Questa figura è nel personaggio, quasi centrale, del romanzo, che è il dottore Marco Giustini, che le proporrà la soluzione di riprendere gli studi di infermiera, cambiare casa, sconfiggere il vittimismo e l’ipocrisia sociale di quanti vorrebbero vederti priva di speranza e di riscatto. Una via d’uscita c’è sempre, suggerisce la romanziere.
Al di là di queste montagne, un’altra vita è possibile. Cambia luogo e uomini che cambi fortuna. Forse un poco idealizzato, il medico Giustini ci porta in un altro clima: palazzo signorile, salotto accogliente, modi garbati, soluzioni e sostegno per la vita materiale. Cambiano i colori della vita per Nannina ed i figli. Nunzio rimane nel mulino, trasformato anche in casa. Nell’ultimo capitolo, che ci porta nel 2005, molte vicende si sono chiuse ( sono morti Nunzio, il dottor Giustini, Francesco G. e Rina, la dolce e violentata adolescente, presente in una storia breve ma esposta con immagini indelebili) ed altre vicende iniziano a svolgersi, specie quelle universitarie dei figli. La chiusa è sul tema del destino cui ciascuno deve obbedire, con una punta d’ottimismo per la nuova storia che incalza ed i progressi della società dell’informazione e forse anche per 5 le mutazioni morali introdotte dalla lotta e dalle leggi per i diritti civili, per le pari opportunità e contro l’omofobia e sul divorzio veloce.
Monica Cirigliano appartiene alla letteratura prodotta dagli emigranti rientrati, come Andrea Consoli e Carmine Abate, letteratura che è capace di cogliere la condizione originaria del Sud d’Italia attraverso uno sguardo rinnovato; è una lettura interna alla mentalità ma illuminata da una conoscenza di costumi esterni. Inutilmente i cinici potranno relegare queste pagine fra la letteratura rosa, crinale cui pure la funambolica scrittrice rischia di non oltrepassare. Vi è una forza generazionale che pulsa nelle analisi e sorregge l’intreccio ma che trova nelle ‘riflessioni’ dialogiche conclusive una chiara espressione, che andrà a maturare in pagine successive. Per un altro verso, siamo di fronte ad una versione femminile delle tematiche del romanzo ‘ Padre padrone’ di Gavino Ledda, che ha diffuso,dal 1975, la terribile educazione ed emancipazione di un pastore in Sardegna. Sarei felice se questo romanzo della Cirigliano trovasse l’accoglienza giusta,fino alla resa filmica. Da un altro lato, Monica Cirigliano va inserita, come merita, in quel filone letterario che va da “Iris e peonie” di Rosa M. Fusco (storia d’un’educazione) a “Mille anni che sto qui” di Mariolina Venezia( racconto epico, con cui condivide la forza dell’incipit e lo svolgimento generazionale). (Recensione pubblicata per gentile concessione dell’autore, Antonio Lotierzo)