Ius amicitiae inter gentes, ius usquam vivere, ius soli

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    Mio padre, Rocco, è stato, forse, il primo lavoratore precario volontario della storia. Non sopportava le “cose storte”. Veniva assunto, e dopo qualche tempo licenziato.

    Non sopportava le “cose storte”. Era intollerabile per lui che un capo squadra insultasse un operaio. Si irritava per uno sgarbo del padrone, per un diritto appena violato. Insomma, un operaio ribelle. Oggi è difficile protestare persino quando ti impediscono di andare al bagno. Lui protestava anche per un minuto sottratto alla pausa  pranzo. Eppure era un gran lavoratore, lo assumevano dappertutto: ditte edili, l’ente ferrovie, l’acquedotto pugliese. Sì perché lui era disponibile finanche a calarsi nelle fogne, di notte, per pulire le condotte otturate. Tornava a casa all’alba che puzzava peggio di una carogna. Pagavano bene per quel lavoro notturno e “schifoso”.  Peccato capitasse raramente.  Assunto e licenziato. Un precario a vita che ha lavorato tutta la vita. Non sempre a dargli il ben servito era la ditta, anzi, spesso era lui che scaraventava il piccone sul selciato e con un vaffa anima e sangue se la dava a gambe da quel padrone “sfruttatore”. E non sempre era lui la vittima dell’insulto o dell’abuso, spesso lo erano i suoi compagni più timidi e tolleranti. Rocco, però, si licenziava, mentre loro, i timidi, continuavano a piegare la testa e a “obbedire al padrone”.

    Emigrò pure, in Germania. Resistette nove mesi circa. Quella volta non per causa di un vaffa al padrone, ma per quel mal di lontananza che colpisce le persone troppo legate alle radici e agli affetti. E ricominciò la tarantella del lavoro stop and go. Con il padrone tedesco mantenne nel tempo un rapporto di amicizia. L’estate successiva al rientro in Italia di mio padre, Heinrich, il padrone, trascorse le vacanze da noi a Venosa. Ritornarono anche l’anno dopo. Con sé la moglie di cui non ricordo il nome e il figlio, Hartmut.  Rocco, il sindacalista ribelle, a braccetto con il padrone tedesco. Una vera rivoluzione? Niente di che. Semplicemente mio padre non tollerava le “cose storte”, ma amava le “cose giuste”. L’imprenditore edile tedesco, raccontava mio padre, “rispettava gli operai, gli dava da mangiare cose buone e da dormire in un alloggio dignitoso. Non chiedeva mai straordinari sottopagati, applicava il contratto in ogni sua parte ed era solidale con tutti noi”.  Heinrich era un uomo di buon senso, un simpaticone, sulla cinquantina, alto e grosso.  Il figlio, più grande di me, credo avesse 11 anni, alto longilineo biondo e con gli occhi azzurri. Un vero tipo tedesco. Mio padre, basso, con la faccia rossa come chi è sempre arrabbiato, aveva 37 anni, siamo nel 1967, ed io ne avevo 6. A quei tempi nel nord Italia era molto diffuso il pregiudizio contro i meridionali. Negli altri paesi europei, specie Svizzera e Germania, era diffuso il pregiudizio verso gli italiani. Rocco, operaio italiano “terrone” e Heinrich, padrone tedesco “ariano”, insieme sulla barca ai laghi di Monticchio, insieme sul lungo mare di Bari, insieme a mangiare e bere a casa, mentre i figli giocavano ad imparare l’uno dall’altro la rispettiva lingua, lacrimando per le risate. Mentre le mogli si divertivano ad imparare l’una dall’altra a fare le schnitzel e le orecchiette. A fine estate, sul punto della partenza, i due si abbracciarono con queste parole: “Quando vuoi Rocco, la Germania è la tua patria. Quando vuoi Heinrich, l’Italia è la tua patria.” Da quell’abbraccio ho capito che la mia Patria è la Terra, con il suo Sole, con la sua Luna, con i sui mari, con il suo cielo. Che cosa ha veramente uniti Rocco e Heinrich? L’amore per la giustizia, la solidarietà e il buon senso. E’ così difficile di questi tempi?

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