Sul reddito di cittadinanza c’è poco da ridere

Prima o poi dobbiamo accettare, e anche promuovere, il rovesciamento di molti paradigmi. A partire dal paradigma del lavoro

Dare il pane a chi ha bisogno non è una cazzata. E’ un diritto umano fondamentale.  E dopo aver dato il pane, si dia la farina per farlo. Questo è un altro diritto umano. E dopo avergli dato la farina gli si dia La terra e i semi. Gli si consenta di coltivarla e di produrre per se e per gli altri. E questa è giustizia.  E chi non vorrà produrre il grano, si occuperà del cielo e della pioggia, della bellezza dei campi e delle case. E chi non vorrà fare questo, si occuperà della musica, dell’arte, o della solidarietà verso coloro che ancora hanno bisogno che gli si dia il pane. Fino a quando nessuno avrà bisogno che gli si dia il pane. E allora tutti vivranno una vita  degna di essere vissuta. La società si evolve nel bello dell’esistenza e mai nella bruttezza del bisogno. E chi investe nella bruttezza, per assicurarsi la sua comoda, personale, egoistica agiatezza, non fa evolvere in alcun modo l’umanità.

Non scherziamo col fuoco

La povertà e la disoccupazione sono fenomeni strutturali in una lunga congiuntura che ha ormai più di 50 anni. Un fenomeno che è destinato a crescere, nonostante i benpensanti liberisti dell’eden degli algoritmi e delle fantastiche tecnologie. I dati dimostrano che, al momento, e il momento ormai si avvicina ai 30 anni di età, la rivoluzione tecnologica non crea tanti posti di lavoro quanti ne sopprime. E sarà sempre così. Basta fare un calcolo aritmetico tra la quantità di lavoro umano e il tempo di lavoro umano necessari per produrre qualsiasi cosa e la popolazione in età lavorativa e quella in età pensionabile. Tra la produzione e il consumo, tra la quantità di prodotti potenzialmente in circolazione e la popolazione in grado di acquistarli. Potremmo continuare a lungo con l’aritmetica, ma basta guardarsi intorno per capire che la strada è tutta in salita. Oppure è in discesa. E questo dipende dai punti di vista.

Il mio è che prima o poi dobbiamo accettare, e anche promuovere, il rovesciamento di molti paradigmi. A partire dal paradigma del lavoro.

Il lavoro è un diritto?

C’è la storia di Giovanni, che lavora in una miniera, otto ore al giorno e turni di notte. “Fisicamente ti annienta questo lavoro. Tra lavoro e sonno, mi restano poche ore per vivere la mia famiglia, i mei amici, i miei hobby, le mie passioni. Avrei voluto fare il chitarrista e guadagnarmi da vivere suonando nei locali, ma non è andata così. Comunque posso dire di essere fortunato: io un lavoro ce l’ho, il pane non mi manca.”. C’è la storia di Anna, che lavora in una fabbrica che produce mine anti uomo e dispositivi per carri armati. Otto ore al giorno e turni di notte, alla catena di montaggio. “L’angoscia di produrre strumenti di morte, spesso mi assale nel sonno. Quando alla tv fanno vedere scene di guerra, bambini morti e feriti, cambio canale. Poi penso che se quel lavoro non lo faccio io, lo fa qualcun altro. E’ un lavoro e basta. E sono fortunata.” C’è la storia di Salvatore, ex tossicodipendente, ex detenuto, che lavora, grazie ad un progetto di inserimento del Comune, nei vespasiani, pulisce i cessi. Poche ore al giorno, quanto basta per sopravvivere. “Dicono che così riacquisto dignità, vorrei vedere loro a pulire i cessi. Comunque è meglio di niente.” C’è la storia di Francesco, ex carpentiere, disoccupato da cinque anni, con una famiglia finita nelle statistiche come assolutamente povera. “Ho mandato curriculum dappertutto, ho girato per tutta la provincia. Ma niente, sembra che tutto si sia fermato. Non so più come fare.” C’è la storia di Loredana, laureata in architettura da tre anni, ancora sulle spalle della madre pensionata. Ha fatto domanda per un lavoro stagionale ben pagato in Svizzera, in agricoltura. Sta aspettando. Cinque storie per farsi una domanda: il lavoro è un diritto o un dovere? Nella genesi 3.19 leggiamo: “Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. (…) Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Da qui la semplificazione culturale, sopravvissuta fino ai giorni nostri, per cui “se non lavori non mangi”. Lavorare è dunque un dovere, perché nel tempo è diventato un diritto? “Il lavoro, notava George Simmel, è innanzitutto fatica, molestia e difficoltà; di modo che, quando il lavoro non è tutto ciò, si suole mettere in evidenza che non si tratta di vero lavoro”. Potremmo quindi affermare che quello raccontato nelle cinque storie è lavoro vero. E se lavoro vero è, l’unico diritto che possiamo scorgere in quei racconti è “il diritto di mangiare” che, però, deriva da un dovere: il dovere di lavorare. Detto questo, molti sostengono che il diritto al lavoro non va inteso in senso pecuniario, ma come diritto a lavorare, anche per conservare la stima di sé, per mantenere la propria dignità, altrimenti diventerebbe un diritto al reddito. Su questa osservazione ci sarebbe molto da obiettare, ma per sintesi mi chiedo per quale ragione una persona dovrebbe avere il diritto alla dignità e non anche il diritto di mangiare? Ecco la prima domanda. Qui la risposta potrebbe essere semplice. La dignità non è un diritto, è di più: è il valore intrinseco dell’essere vivente umano, dato alla nascita, perché partecipante alla comune umanità. Il lavoro dunque, non serve a dare dignità. Dovremmo forse pensare che un uomo o una donna che non hanno mai lavorato, per scelta, o per necessità, sono privi di dignità? Vorremmo forse dire che un ragazzo con la sindrome di down acquista, o completa, il suo valore intrinseco di essere umano soltanto quando comincia a friggere le patatine da McDonald’s? Non credo. Però, direbbe qualcuno, il lavoro nobilita, gratifica, ti fa sentire parte del mondo produttivo e quindi attore nella società, padrone del proprio destino. Sì, ma soltanto a certe condizioni: una su tutte, fondamentale, è che sia scelto e non imposto dalla necessità di mangiare.

Se il lavoro nasce con il capitalismo, l’alternativa al capitalismo è nell’alternativa al lavoro. Ma a certe condizioni che riguarderanno soprattutto i rapporti di forza in campo tra neo capitalismo proprietario degli algoritmi e nuove forze rivoluzionarie umanitarie che spingeranno nella direzione di una sana ed equilibrata ridistribuzione della ricchezza prodotta. (Continua nella pagina seguente)