Flussi migratori e crisi della reciprocità: la soluzione è donare non prendere

Li affamiamo, li sfruttiamo, e poi quando fuggono dalla fame e dalla schiavitù li lasciamo morire in mare

Tra le tante crisi che l’umanità attraversa, e di cui in pochi si rendono conto, una è particolarmente insidiosa: la crisi della reciprocità. Una corsa a prendere senza dare, a consumare tutto ciò che è inutile senza produrre ciò che serve. La reciprocità del bene sta soccombendo a quella del male. I fondamentali della reciprocità risiedono nella restituzione, attraverso la gratitudine, di quello che ci è stato donato. Tuttavia nel contesto della crisi è proprio il dono, inteso come atto di bene, ad essere colpito. Il dono vicendevole, sta scomparendo e lascia spazio allo scambio compensativo. “Tu dai una cosa a me e io do una cosa a te”. Sì, ma cosa? Amore, solidarietà, aiuto, sostegno, condivisione del bene e dei beni? No: merce, prestazioni, like, soldi, convenienze, nel quadro egoistico del mio benessere materiale. Ciò che do (che non dono, ma do) deve corrispondere a ciò che ricevo (che non è reciprocità, ma scambievolezza). Anzi, non do, offro nella prospettiva di ricevere qualcosa in cambio. Nel dono è possibile l’asimmetria, nello scambio lo scopo è sempre nella simmetria. Il valore dello scambio è economico, si misura in materialità, anche se riguarda sentimenti, emozioni e altri aspetti immateriali della vita. La reciprocità ha sempre un fondamento morale, spirituale, soggettivamente etico, umano. E quindi posso donare senza ricevere. Il caso più eclatante è quando dono la mia vita per salvare quella dell’Altro.

Se io conosco la matematica e tu conosci il latino e decidiamo di insegnarci vicendevolmente queste discipline, saremo entrati in una relazione di reciprocità e non di scambio. Alla fine del percorso nessuno dei due avrà perso qualcosa e tutti e due avremo arricchito le conoscenze. Io, oltre a conoscere la matematica, conoscerò anche il latino, e viceversa, non avrò perso la conoscenza che avevo, avrò aggiunto altra conoscenza. Se io ho il pane e tu hai l’acqua insieme condivideremo mangiare e bere. Se il pane lo offro in cambio dell’acqua e viceversa, tutti e due avremo perso ciò che avevamo in cambio di ciò che ci mancava. Tuttavia, ci sarà sfuggito il fatto che la fame non può escludere la sete, mangiare va insieme al bere. Tutti e due avremo una mancanza.

Detto questo, la crisi della reciprocità si manifesta nella prevalenza dell’Io e del Mio, contro l’Altro. Non facciamo più l’esperienza dell’Altro se non nel contesto dell’utilità. L’Altro esiste se mi è utile, se serve ad esaltare il mio narcisismo, se serve al mio benessere materiale. L’Altro è quello dei like, sono i follower, quelli delle visualizzazioni: nutrono il mio narcisismo e si annullano in un click. Nello scambio compensativo, l’Altro è l’immigrato di cui ha bisogno la mia azienda, è il bracciante africano che mi garantisce frutta e ortaggi sulla tavola. L’Altro sono i bambini che lavorano nelle miniere di cobalto, per un dollaro al giorno, affinché io possa gratificarmi con il telefonino e con l’auto elettrica. In questo caso l’Altro non è un essere umano, un abitante del mio stesso Pianeta, non è mio fratello, ma è ciò che mi serve. Se non mi serve non lo accolgo, non lo ospito, lo respingo.

La reciprocità richiede cooperazione, lo scambio compensativo si sviluppa nella competizione. A livello di massa la competizione è nel consumo. La sfida a consumare è una sfida identitaria: sono ciò che consumo e quanto consumo. Si compete nel piacere della “consumazione”. A livello individuale la competizione è nelle prestazioni, nella produzione, nell’essere migliori imprenditori di se stessi rispetto agli altri, nella migliore capacità di gestire il proprio “capitale umano”. A livello individuale la competizione è nella capacità di gestire se stessi come azienda. Il neoliberismo ci ha ridotti a macchine di prestazione, a corpi assimilati alle procedure e ai processi aziendali. Non siamo più umani, ma omini per la produzione, umanoidi. Siamo cercatori d’oro che si ammazzano a vicenda, ossessionati dalla ricchezza e dalla paura di perdere il Mio.

Il dono ha un valore sociale, crea nuovi legami e rafforza quelli esistenti (Marcel Mauss, 1924). “Secondo i principi dell’economia classica un bene ha due valori: d’uso, perché soddisfa un bisogno; di scambio, perché procura altri beni.” Si tratta di beni materiali. Tuttavia, donare non è un’azione legata all’offerta disinteressata di un oggetto, almeno non solo. Donare è un atto di coraggio, di amore per l’Altro: si può donare amore, affetto, si può donare la propria vita per salvare la vita dell’Altro. Donare un bene, un oggetto – cito nuovamente Mauss- provoca uno squilibrio positivo, che crea e tiene viva la relazione, garantisce unione tra chi dona e chi riceve. “Il dono è sempre una richiesta di fedeltà, in cui l’impegno a restituire è a scelta dell’altro, il dono vincola e libera al tempo stesso”. Il prestito crea dipendenza, il dono crea libertà.

Dunque crisi della reciprocità è anche crisi dei legami sociali. Legami ormai fondati sullo scambio materiale e utilitaristico. E chiediamoci perché siamo in un mondo poggiato sul prestito e quindi sul debito e sul credito. Persino nel linguaggio scolastico e universitario l’utilitarismo, l’economicismo hanno preso il sopravvento. “Il sistema dei crediti all’università è un esempio lampante. Gli atenei diventano “istituti di credito: gli studenti hanno un ‘conto in banca’ accademico che viene arricchito dai crediti che conseguono, ogni credito corrisponde a un tot numero…che va a rimpolpare il conto fino a che la somma non raggiunga il livello per ottenere il titolo finale di studio. Per ottenere i crediti milioni di studenti e di famiglie devono indebitarsi: ad ogni credito corrisponde un debito.” (Marco D’Eramo, 2021).

E che dire del debito degli Stati? E che dire del debito usato come arma nei confronti dei Paesi più poveri? Li affamiamo, li sfruttiamo, e poi quando fuggono dalla fame e dalla schiavitù li lasciamo morire in mare. Lasciamo che dittatori corrotti e servi dei disegni predatori delle multinazionali e degli interessi politici delle potenze industriali, mantengano nella povertà e nelle guerre milioni di esseri umani e poi pretendiamo che quelli stessi esseri umani non debbano fuggire dall’inferno.

Ne usciremo se il paradigma della competizione lascerà spazio al paradigma della cooperazione. Ne usciremo soltanto con la rinascita di legami sociali e individuali fondati sulla reciprocità. Ne usciremo se impareremo a riconoscere e ad amare l’Altro. Al centro delle politiche nazionali deve esserci la cooperazione tra i popoli finalizzata al reciproco benessere piuttosto che al reciproco interesse. Una visione che trae origine dalla consapevolezza che la felicità di un popolo dipende dalla felicità degli altri popoli. E’ questa l’interdipendenza che va costruita: mondializzare l’interesse collettivo dell’umanità anziché l’interesse particolare di un popolo a discapito di un altro popolo. Se ciò non accadrà sarà la storia ad emettere la sentenza. E saremo tutti vittime del nostro suicidio. Altro che Dio, Patria e Famiglia.