La crisi dei giornali e il lamento dei giornalisti

Chi paga il prezzo dell’aziendalismo e dell’automazione?

Ormai siamo a quasi 25 anni dall’inizio del nuovo secolo. E’ accaduto di tutto, dalla rivoluzione tecnologica e digitale ai profondi mutamenti antropologici nei costumi, nei consumi e nelle relazioni sociali. Siamo nelle mani dei padroni dei mezzi di produzione digitale. Gli algoritmi forniscono risposte senza la necessità che vi siano domande. L’automazione sta raggiungendo livelli impensabili fino a 20 anni fa. Il lavoro umano, sia manuale che intellettuale, perde valore in molti settori: logistica, trasporti, distribuzione, manifattura, agricoltura, credito. Ma anche il turno di altri settori è arrivato da tempo: sanità, giustizia, educazione, informazione…L’intelligenza artificiale sta penetrando le vite di ciascuno di noi e sta rivoluzionando il mondo del lavoro. E’ un tema questo che richiede approfondimenti e sul quale da decenni molti autori pubblicano studi, analisi, ricerche, alcuni dei quali elegantemente inascoltati. Per evitare equivoci, noi siamo per un’accelerazione dell’automazione, per giungere il più presto possibile a una società post-lavoro, una società libera dal lavoro salariato. Ma questa è un’altra faccenda.

Qui, oggi, ci limitiamo ad alcune considerazioni sulle trasformazioni in corso nel mondo del giornalismo. La questione chiama in causa molte variabili, perciò non è semplice da trattare in un articolo. Proviamo a tracciare a grandi linee un’opinione su alcune ragioni della crisi che attraversa il mondo dell’editoria giornalistica.

La confusione tra notizia e conoscenza è una delle prime cause della crisi, una causa che ha origini nell’opinione pubblica e cioè dal lato dei consumatori. Avere notizia di un fatto non sempre equivale a conoscere. Sapere che è scoppiata una guerra o un’epidemia è diverso da conoscerne le ragioni, le conseguenze, le implicazioni più vaste, le soluzioni. Sui social la notizia arriverà prima che su una testata giornalistica sia cartacea sia web. Un articolo di cronaca lo scriverà meglio l’algoritmo, non ci sarà bisogno del giornalista alla tastiera. L’informazione è una variabile pervasiva, la trovi ovunque, anzi è lei che trova te ovunque tu sia: alla stazione, in aeroporto, a casa, in ospedale…

Gli strumenti che veicolano la notizia sono alla portata di tutti: i device mobili in prima fila. Sul lato della produzione, assistiamo a diversi fenomeni che stanno affossando l’idea stessa di giornalismo e di missione giornalistica. Internet ospita milioni di siti e applicazioni veicoli di un’informazione “decadente”, banale e superficiale. Questa offerta è gradita a milioni di persone ubriacate dalla ludicizzazione digitale. L’idea per cui è la fonte giornalistica a offrire informazione e notizie è completamente saltata: la fonte giornalistica insegue il pubblico, i suoi gusti, le sue preferenze. Riceve input dal pubblico e li trasforma in output informativo. Si crea un cortocircuito cognitivo che spinge in basso la qualità dell’informazione, sempre più in basso.

Le persone, gli utenti del web, autoproducono “notizie”, spesso l’oggetto sono essi stessi, la loro vita, i loro pensieri, le loro vicissitudini, i loro corpi nudi, le loro case, il loro cibo: esposti sui social e offerti al pubblico. La notizia, insomma, non ha più un distintivo. Tutto fa notizia, tutto è notizia. Se non solleciti il lato emotivo dei diversi pubblici, non fai click, non vendi la copia. Tuttavia, il lato emotivo si va sempre più banalizzando. L’istantaneità della notizia e la velocità con cui si diffonde creano seri problemi di verifica. La notizia oggi pare non aver bisogno di contenuti, basta a se stessa. Ne deriva che il giornalista non sarà più il professionista che cerca e dà la notizia, a quella ci pensa l’algoritmo o il pubblico. Sarà un creatore di contenuti, di approfondimenti, di conoscenza, un produttore di pensiero, un seminatore di dubbi su fatti di cronaca, di cultura, di politica, di costume. Il giornale, cartaceo o web, assomiglierà sempre più a un “libro quotidiano”, breve, agevole, istantaneo sui fatti più importanti e di impatto sulla vita delle persone. Farà da impulso alle diverse opinioni del dibattito pubblico. Sarà come “un ritorno in avanti”. E qui casca l’asino. La domanda di questo tipo di prodotto è scarsa. E forse è scarsa anche perché l’offerta è limitata.

Le aziende editoriali sono aziende. Fanno i conti. Se il mio giornale non sta in piedi lo chiudo. Se le redazioni e i giornalisti mi costano più dei ricavi, taglio. Se gli approfondimenti, i contenuti importanti non tirano mi muovo su altri tracciati: gossip, sesso, sangue, manualistica da quattro soldi, scemenze di vario genere. Soprattutto quando gli editori si affannano a tenere in piedi giornali per altri scopi, oltre i profitti. E quando fanno profitti in altre attività grazie anche al supporto “costoso” dei giornali di proprietà.

UNO SGUARDO ALLA BASILICATA

Detto questo, diamo uno sguardo alla Basilicata, avendo sullo sfondo quanto scritto sopra. Quasi tutti gli organi di stampa, cartacei e web, campano sui comunicati stampa e sulle agenzie. Il risultato è un’omologazione del pacchetto di notizie. Tutti forniscono la stessa informazione, con variazioni sui titoli, sull’impaginazione e sul contenuto a seconda degli interessi dell’editore. Ci sta, fino a un certo punto. Editore mai puro, ma coinvolto in altri affari per i quali il giornale o la Tv di cui è proprietario fanno da supporto. Il giornalismo è il loro ultimo pensiero. Fin quando le aziende editoriali saranno aziende, non potranno fare altro che comportarsi da aziende. Soprattutto se queste aziende usano il giornalismo come strumento per altri fini che non siano l’informazione, l’approfondimento, la conoscenza come impulsi di pedagogia del dibattito pubblico. I giornali lucani, a parte rarissime eccezioni, sono tutti generalisti e fanno fatica a reggere la sfida dei mutamenti in corso nel mondo dell’informazione. Il localismo funziona ancora da stampella e protegge in qualche modo dall’esposizione alle dinamiche descritte nella prima parte di questo articolo.

Tuttavia, la Basilicata pullula di giornalisti, specie pubblicisti. Circa 200 professionisti e oltre 700 pubblicisti, un numero spropositato. Qualcuno si assume la responsabilità di questi numeri?  Molti di loro, i professionisti, non sanno da che parte iniziare una carriera. Offerta eccessiva, scarsa la domanda. E allora si punta agli uffici stampa, a un impiego o incarico pubblico. E gli spazi della libertà si restringono. I pubblicisti, poi, sfornati a centinaia negli anni, senza alcun criterio, e magari senza aver mai scritto un pezzo, invadono il campo e conservano il tesserino per tirarlo fuori all’occorrenza. Lo usano – il tesserino – per darsi un tono o per le necessità più varie. Ovviamente – tranne pochissimi – non fanno i giornalisti, ma tutt’altro.

E sempre attraverso l’alibi dell’informazione qualcuno – editore o giornalista che sia – usa la stampa come clave o spauracchio per tutelare interessi che nulla hanno a che fare con la missione giornalistica.

E così, il vanitoso di turno si inventa un giornale dalla mattina alla sera. Possibile, perché lui è un pubblicista. Scopiazza di qua e di là notiziole alla spicciolata e ha anche l’ardire di commentarle. E così, alcuni cosiddetti giornali on line senza un numero di telefono, senza una redazione né un indirizzo, invadono il web e, forse, si prestano a pubblicazioni comandate in cambio di qualche spicciolo.

Senza fare di tutta l’erba un fascio, di pressappochismo, ipocrisie e sciatterie, è pieno il mondo lucano dell’informazione: dalla carta stampata al web, dalle testate televisive – compresa quella del servizio pubblico – alle radio. E in alcune circostanze è evidente che qui la libertà di stampa è una barzelletta.

Occorre una vera e propria rivoluzione che rimetta al centro la missione giornalistica nel quadro delle innovazioni e dei mutamenti in corso anche a livello locale. La funzione degli organi di informazione, anche locali, dovrebbe subire una trasformazione profonda. “Raccontare il territorio” è ormai una frase romantica. Serve, invece, sfidare l’opinione pubblica locale sui temi dello svelamento della realtà territoriale affinché l’attenzione su fatti e fenomeni che hanno importanti ripercussioni sulla vita sociale, culturale, politica ed economica siano al centro del dibattito pubblico. Affinché cresca la dotazione di conoscenza utile allo sviluppo della capacità critica dei cittadini nel valutare la realtà e gli accadimenti che la circondano. Giornali critici, veicoli di opinioni e interpretazioni tra loro differenti, in un quadro pluralistico, ma che mettano al centro un giornalismo al servizio del territorio con inchieste, approfondimenti, dibattiti, produzione di pensiero. Il pubblico meno invasato dal banalismo digitale lo apprezzerebbe. Come si fa? E’ una domanda che richiederebbe molte risposte, non facili. Magari bisogna immaginare qualcosa che stimoli e aiuti i giornalisti ad essere editori di se stessi, sottraendosi alle pressioni dei finanziatori e alle influenze improprie del potere economico e politico. Giornalismo che torni ad essere una missione, non una funzione dell’azienda editoriale. Tuttavia, anche questa risposta è una semplificazione, le variabili in campo sono tante, ma ci torneremo. Ci basti dire adesso che settori quali la scuola, la sanità, l’informazione, non meritano di essere trattati con la cifra aziendalistica e di mercato. Abbiamo già visto come è andata a finire: male.

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