Antonio Gramsci e la questione intellettuale nel mondo degli influencer

Il 27 aprile 1937 moriva uno dei grandi del novecento. Fu lui, dal carcere, ad elaborare la prima teoria degli intellettuali. Oggi siamo nelle mani di "esperti" e "influencer"

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Nella sua concezione l’intellettuale, non è solo chi “produce cultura”, poiché, in senso lato, “tutti gli uomini sono intellettuali” perché tutti gli uomini in diversa misura svolgono una qualche attività intellettuale e possiedono o producono una certa concezione di mondo.

La concezione gramsciana è molto vicina a quella antropologia secondo cui non esistono uomini incolti, poiché tutti possiedono simboli e strumenti per interpretare il mondo e i fenomeni che lo circondano.

Questo non significa eliminare la prevalenza di figure più definite di intellettuale. E cioè quelli che per professione producono cultura, opinioni, suscitano nuovi modi di pensare e organizzano il consenso.

La distinzione che Gramsci introduce nella sua elaborazione è tra intellettuali organici e intellettuali tradizionali.

Questi ultimi credono di essere indipendenti dal gruppo sociale dominante ma, secondo Gramsci, non lo sono. Costoro sarebbero gli uomini di chiesa, il clero, i giuristi, i burocrati ma anche i filosofi idealisti.

Gli intellettuali organici, invece, sono consapevoli che non esiste alcuna torre d’avorio, o una splendida finestra da cui guardare e capire il mondo e la realtà. Sono quelli che credono nella responsabilità di una scelta e decidono da che parte stare. Per Gramsci si tratta di scegliere se stare dalla parte della borghesia o del proletariato, di scegliere a quale di queste classi sociali essere, appunto, organici.

Il modo di essere del nuovo intellettuale, secondo Gramsci, non può più consistere nell’eloquenza, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente”. E, in quanto organico, portatore e interprete degli interessi di una classe sociale.

Oggi, a distanza di ottant’anni, chissà cosa direbbe Gramsci a proposito degli intellettuali.

Oggi il conflitto, o la lotta, non è tra proletariato e borghesia, ma dovrebbe essere tra rendita finanziaria e impresa produttiva, tra lavoratori e capitalisti senza scrupoli, tra dominanti e dominati, tra detentori dei mezzi digitali di produzione, dei big data, e gli Stati. Tra ricchi e poveri.

Il paradigma del conflitto ha subito rovesciamenti di senso, fino al rischio della scomparsa stessa della categoria di conflitto. Rinchiuso nel solo linguaggio e nell’azione politica dei governi e degli Stati guerrafondai. Il conflitto è solo guerra. La dialettica è solo urla e litigi, il dialogo è appannaggio teorico dei sognatori di pace e di concordia. La misericordia ridotta al potere violento del dono che crea dipendenza, a quella carità agita dalle “persone buone” verso i poveri. Così da allontanare il conflitto tra ricchi dominatori e poveri dominati, tra l’egemonia del neo capitalismo senza scrupoli e la sottomissione di miliardi di donne, uomini, bambine e bambini.

E invece è proprio del conflitto che l’umanità ha bisogno. Nel micro ambiente familiare, nel quale agli adolescenti è stato sottratto “il nemico”, dove i genitori, “amici” dei figli, hanno sepolto lo sforzo educativo e allontanato lo scontro per “non avere problemi”. Il macro ambiente sociale, dove l’individualismo di massa, il narcisismo esistenziale, hanno fatto a pezzi l’idea di giustizia e di bene comune.

Gli intellettuali  hanno lasciato il posto agli “influencer”, organici al marketing delle multinazionali, alla maionese di quella marca o al ristorante di quella piazza. Organici a quel gruppo politico o all’altro. Soprattutto, organici a chi li paga. Influenzano cattive mode, pensieri stupidi e producono una cultura della banalità.

Non hanno più alcun peso e spesso sono distanti dal pensiero gramsciano dell’intellettuale che si mescola con la vita pratica e, aggiungo, con la realtà della rozza materia. Sostituiti dai cosiddetti “esperti”, chiamati in causa ogni volta che qualcuno ha da far valere ragioni proprie o, forse, i propri interessi.

Esiste un vuoto intellettuale, in cui trovano ampio spazio gli imbonitori, gli azzeccagarbugli, gli scienziati senza scienza, giornalisti e scrittori senza penna, alla ricerca di un briciolo di visibilità e di denaro facile. Un vuoto pericoloso in una società confusa.

Non so dire quanto sia attuale il pensiero di Antonio Gramsci sugli intellettuali. Credo, però, che il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale, che egli allora si poneva, sia oggi cruciale.

E credo che bisognerebbe ripartire proprio da Gramsci, ripensando il peso della cultura nella vita sociale, abolendo nella prassi la distinzione tra homo faber e homo sapiens. Perché una democrazia vera, una società libera e aperta, hanno bisogno che ogni cittadino sia un intellettuale nel senso di produttore di Cultura e di pensiero, capace di interpretare il mondo e i suoi fenomeni con la saggezza del sapere. Un cittadino che quando guarda un dipinto di Caravaggio sia incapace di pensare “lo so fare anche io”, ma capace di apprezzarne il valore e la bellezza.

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