La figura femminile nel cinema: dallo stereotipo italiano alla Nouvelle Vague

Si deve uscire dall'Italia (malgrado le poche eccezioni che qui la rivalutano ) per vedere la donna trattata meglio,

Più informazioni su

Umiliate e fragili le figure femminili nei film qualunquistici del cinema italiano dove abbondano le sedotte e abbandonate dai tipi “in gamba”, come Sordi, Tognazzi, e le loro storie con ragazzotte, bambolone lacrimevoli con cui si vivevano storie veloci, presto dimenticate. O la donna del cinema neorealista che ormai lavora e si sta un po’ evolvendo, ma è agguantata gratuitamente dal “capo” che le consiglia di sopportarne le avances per conservare il posto di lavoro; come in “Un marito per Anna Zacchéo”, interpretato da Silvana Pampanini.
Così come le grandi donne innamorate, come Anna Karenina, Emma Bovary, Madame Butterfly, convinte di avere solo amato, senza risposta, vittime del proprio masochismo, a dimostrare una forma di adattamento allo stato di servaggio.
Si deve uscire dall’Italia (malgrado le poche eccezioni che qui la rivalutano ) per vedere la donna trattata meglio, anzi bene, dandole autonomia, sicurezza ed una certa agiatezza. Una donna d’élite, ma comunque una donna nuova, quella della Nouvelle Vague. Francese e con un equilibrio. Il nuovo cinema supera la modalità del racconto in cui, inevitabilmente, si sarebbe caduti in stereotipi, quali il giustificato vittimismo femminile e la propensione dell’uomo ad essere sultano.

Perché passa per l’esperienza dell’école du regard, che osserva con occhi nuovi i personaggi, distruggendone i modelli standard: la macchina da presa sul volto, sugli occhi, anche per lungo tempo, della protagonista in silenzi che al pubblico inizialmente sembrano troppo lunghi, ma che inducono alla riflessione e lo educano a liberarsi dai pregiudizi o a non soffermarsi sulle caratteristiche fisiche femminili e maschili. Il cinema diventa campo di indagine in cui sparisce del tutto l’irrisione femminile.

I films sono senza oggetto, quindi poetici, come “Questa è la mia vita”, di J. L. Godard dove è la donna, elegante, raffinata, ad avviare la conversazione in un locale pubblico, con un signore maturo che legge, alle sue spalle: dal nulla di cui vuol parlare lei, quando dice “perché bisogna sempre parlare?” lo scambio di opinioni condotto con intelligenza porta ad affermazioni come:” Non si può vivere senza parlare”, mentre la giovane sostiene che “Le parole ci tradiscono”. Nulla che si riferisca alla fisicità di lei, tanto meno di lui. Solo un esempio del salto di qualità cinematografico che riscatta la figura femminile ed in genere esalta la facoltà del pensiero.

Non sarà così per un certo Cinema americano, sfacciatamente commerciale, almeno dal ’50 in poi, non evoluto, basato sempre più nel tempo su modelli falsamente inneggianti alla bellezza femminile: vedi M. Monroe e l’eco della sua bellezza reale, ma sapientemente costruita per trarne il massimo del guadagno e tale da renderne l’attrice vittima

Più informazioni su