Corruzione. Le responsabilità della Chiesa cattolica in Basilicata

Moralità e onestà hanno poco a che fare con statualità e legalità. Corrompere o farsi corrompere non sono un reato, ma un peccato

Quanta povera gente si è rivolta e si rivolge al prete, al vescovo, affinché intercedano, per ottenere un lavoro, un sussidio, una casa decente. Tanta. E la Chiesa, con i suoi uomini, ha fatto e fa il possibile per aiutare questi fratelli sfortunati. La misericordia, la carità, il buon Samaritano, la solidarietà verso i più deboli, fanno parte dell’equipaggiamento morale della religione cattolica e del Vangelo. Ed è un bene, per tutti. Il lavoro di tanti sacerdoti in campo umanitario è insostituibile.

Tuttavia, la riflessione che qui propongo, in continuità con l’ultimo editoriale sul tema della corruzione, riguarda altri aspetti della cultura e delle regole religiose.

Il sacerdote o il vescovo che intercede con il politico per ottenere qualcosa per un suo fedele, un parrocchiano, riconosce a quel politico un potere. Il potere di risolvere una situazione, di fornire una risposta a una domanda legittima, seppure individuale, circoscritta al caso sottoposto. È uno scambio, intermediato da un esponente della chiesa, tra un cittadino e un politico. Ed è anche uno scambio tra il politico e il sacerdote. Che cosa si scambia?

L’autorità religiosa e l’autorità civile – spesso non laica – mettono sul piatto due poteri che si accordano per aiutare un fratello in difficoltà. Sullo sfondo di quell’accordo ci sono aspettative da ambo le parti. Il politico può ricavarne gratificazione dal fatto che un’autorità religiosa si sia rivolta a lui per risolvere un problema. Soddisfa una sorta di narcisismo del potere, un riconoscimento autorevole del suo ruolo. Potrebbe aspettarsi anche una crescita del prestigio negli ambienti parrocchiali, un aumento del valore della sua reputazione di “uomo che fa il bene”. Il sacerdote, dal canto suo, si aspetta che il problema sottoposto venga risolto e così – a parte l’esercizio del dovere religioso di aiutare il prossimo, un fratello, un parrocchiano – egli accresce il potere della Chiesa sui fedeli, il capitale di fiducia apportato dai parrocchiani aumenta. Tutti sapranno che grazie al sacerdote o al vescovo, quel “nostro fratello”, ha finalmente ottenuto un lavoro, una casa o, insomma, qualunque cosa di cui avesse impellente bisogno. Tutti sapranno che il politico Tizio ci ha messo del suo. E per questo, il politico, può anche aspettarsi in cambio il voto alle elezioni successive e il sacerdote può anche interferire con i parrocchiani affinché sostengano quel politico “che fa il bene”.

Non si tratta di corruzione, ma semplicemente di uno scambio “per il bene del prossimo”. Il beneficiario apparentemente è un terzo che però deve essere riconoscente a due poteri, rinforzandoli: quello del politico e quello del religioso. Eppure, siamo in presenza di uno scambio corruttivo anomalo: si corrompe, nel senso di alterare, deteriorare, guastare, il rapporto tra due ruoli e funzioni. Due poteri che non agiscono per l’interesse generale ma per l’interesse – legittimo – di un singolo e, indirettamente, per l’interesse della loro funzione pubblica che assume finalità privatistiche.

Tuttavia, il contributo, magari inconsapevole, fornito dalla Chiesa alla tolleranza dei comportamenti corruttivi risiede nella morale e nelle regole della religione.

Corrompere o farsi corrompere non sono un reato, ma un peccato

Lasciamo da parte il traffico delle indulgenze fino alla seconda metà dell’Ottocento che, in ogni caso, ha fatto da fermento alla tolleranza della corruzione in tutto il Paese. Ci interessa invece il rapporto tra morale e regole religiose e morale laica, tra devozione religiosa e impegno civile, tra adesione religiosa e rispetto delle leggi dello Stato.

I lucani, soprattutto, vivono in una terra cattolicissima, la storia della Chiesa locale è storia incorporata con le vicende della società. È antica l’abitudine, specie delle classi dirigenti, di donare alla Chiesa e rubare allo Stato. Ed è antica l’idea per cui è la salvezza individuale che conta e non la tutela dei beni pubblici. Condivido ancora una volta Isaia Sales: “Molti dei nostri concetti di onestà, moralità, giustizia, sono stati elaborati e determinati dalla chiesa. E non si è ancora del tutto elaborata una concezione laica e condivisa di onestà, moralità e giustizia non religiosa.” Per cui si può essere onesti anche contraddicendo le leggi dello Stato in presenza di una giustificazione religiosa. Perciò onestà e moralità non sempre coincidono con legalità e rispetto delle istituzioni laiche e tutela dei beni comuni.

In Basilicata, nel mondo contadino e borghese la religione cattolica ha avuto un ruolo determinante, come del resto in tutto il Paese, nella costruzione di una morale pubblica religiosa, attraverso rituali rassicuranti che sono diventati tradizione nel senso demartiniano del termine.

In questa regione, il “peccato civile” è quasi sconosciuto, perché non esiste un legame tra la trasgressione delle norme giuridiche che regolano la società laica, civile, e i peccati sanzionati dalla Chiesa. Permane una scissione tra regole religiose e regole statuali. Non rubare, non uccidere, non ingannare il prossimo, sono peccati che non richiedono atti concreti riparatori nei confronti della società e delle vittime. È l’autorità religiosa ad avere il potere di liberarci dal peso dei peccati – non reati – commessi. La colpa e la responsabilità non sono mai verso gli altri, verso la società, verso lo Stato, ma sono colpa verso Dio. E il peccato deve essere riparato nei confronti di Dio non delle persone vittime dell’errore.

È la confessione lo strumento che consente di archiviare dentro se stessi il tormento del peccato e di ricongiungersi con la pace interiore. Bisogna dare conto al Signore non allo Stato. È sufficiente il pentimento interiore per espiare la colpa. La confessione perciò, spesso percepita e concepita dai fedeli come riparazione del peccato nei confronti della Chiesa e di Dio, deresponsabilizza le persone nei confronti della società. Un tempo bastava una donazione, un’elemosina a favore della Chiesa per espiare i propri peccati.

Conclusioni provvisorie

Il perdono cattolico, la clemenza, assumono quindi un carattere asociale. Il reato – peccato – nel momento in cui diventa una questione di salvezza individuale, nel rapporto privato tra il peccatore e Dio, mediato e negoziato nel confessionale, esclude qualsiasi recupero del danno arrecato alla società.

È possibile dunque che un cattolico, in perfetta buona fede, possa ritenere di non peccare se corrompe o si fa corrompere nel quadro della sua onesta attività lavorativa. E se nel caso dovesse ritenerlo un peccato verso Dio, la confessione gli risolve immediatamente il problema, senza dare alcun conto, della propria condotta, alla società e allo Stato.