Il Sud sincero e universale raccontato da Omar Di Monopoli

Lo scrittore pugliese, nei suoi 'western noir' srotola in fittizie città della Puglia le vicende dei suoi eroi/antieroi, iscritti all’anagrafe malconcia di una umanità spietata

Omar Di Monopoli ambienta i suoi “western noir” in immaginarie località ubicate nel triangolo tra Lecce, Taranto e Brindisi. L’ispirazione ad autori come William Faulkner e l’adesione ai canoni di una scrittura dichiaratamente “Southern Gothic” gli consentono di srotolare in fittizie città della Puglia – come Languore o Rocca Bardata – le vicende dei suoi eroi/antieroi, iscritti all’anagrafe malconcia di una umanità spietata, negletta, su un territorio assai verosimilmente vessato dai clan della Sacra Corona Unita, una landa ancorata a schemi del passato e al contempo fagocitata da una modernità deforme, descritta con un registro preciso e affilato. Omar Di Monopoli, in romanzi come “Nella perfida terra di Dio” (Adelphi, 2017), “Uomini e cani” (Adelphi, 2018) nonché “Brucia l’aria” (in uscita a settembre per Feltrinelli) racconta il destino disincantato di un nugolo di personaggi ruvidi, assolutamente inadatti a qualsiasi edulcorazione mediatica a uso politico.

Nessuna intermediazione è possibile, tra polvere e piombo, regolamenti di conti e dialoghi espliciti, con un dialetto che contestualizza assai più dei toponimi le relazioni tra i personaggi, ora brutali ora randagi e solitari, che si avventano e confliggono come tra strepiti d’ossa. Pur sembrando alieni a qualsiasi lontana ambizione verso qualsivoglia forma di redenzione, le figure che popolano il mondo di Omar Di Monopoli abbagliano l’oscurità delle vicende narrate con slanci improvvisi, fugaci, di inattesa umanità. A scombinare le trame di caso e necessità pare ci siano le scelte dei singoli, quando la dignità e l’umanità riemergono, come fiori spontanei. È allora che accade l’impensabile, e la narrazione sorprende con scarti di avvincente imprevedibilità.

Potremmo dire che il Sud di cui parli è sincero e universale?  

È indubitabilmente così. Almeno, questa è l’ambizione. Sono venti anni ormai che sto allestendo un personalissimo acquario in cui, romanzo dopo romanzo, faccio nuotare i miei pesci. In qualche maniera sono personaggi prigionieri dello spazio in cui li ho inseriti e guardandoli vivere le loro vite bislacche e deragliate cerco di decodificare un mondo – il mio Sud – ma ovviamente la verità è che io stesso sono incarcerato in questo splendido spazio limbico solo che, al contrario dei miei pesci, ne sono consapevole e quindi tento di eleggerne le regole, i ritmi, le passioni e le imprevedibilità a paradigma universale.

Sgomberare il campo dall’ipocrisia e farsi finalmente il dono di una narrazione onesta, come fai tu, potrebbe essere il primo passo, nel porre mano ai nodi storici delle nostre terre?   

Non saprei dire se le cose siano davvero da porsi in questi termini. Ogni narrazione è comunque una manipolazione. Un processo per il quale è necessario creare dei conflitti. Ma in una terra contraddittoria e irrisolta come il nostro Meridione i contrasti inventati coincidono in maniera naturale con quelli reali. Quindi la fotografia del vero è implicita, nel mio lavoro. Ma naturalmente è un discorso complesso, sfaccettato, che attiene alla cronaca documentale sino a un certo punto. È che alla fine, nei miei romanzi, il conflitto rappresentato non è mai (solo) tra buoni e cattivi. Per quanto autore di genere in verità lo sforzo è sempre teso a superare una visione manichea dei ruoli per cui ciò che davvero mi preme portare a galla è la specularità delle fazioni che si contrappongono nelle mie storie: Lu Sorgi, l’eremita di «Uomini e cani», per quanto assassino anarchico e troglodita è un “figlio di Dio” tanto quanto il guardiacaccia alcolista e depresso Nico, sono due emarginati posti all’estremità di uno stesso piano, quindi in fondo si somigliano, come si direbbe dalle mie parti: “rrazzano”, fanno parte della stessa congrega. Ecco, sono ultimi, e gli ultimi nei miei romanzi si fanno la guerra – violenta, letale, senza pietà – perché non sanno fare altro, ma esiste una dimensione, magari dagli stessi non “abitata” ma intravista, possibile, in cui potrebbero fraternizzare.

Tra rifiuti tossici e ricatti occupazionali, tra mafie e racket, e una politica che indulge a qualsiasi compromesso, pur di galleggiare nel potere, le sue pagine lasciano intravedere dei barlumi di speranza, che sorge dalla disperazione dei reietti. È in questa umanità, la speranza?  

Paradossalmente il vero luccichio di speranza proviene dal lettore, dalla sua capacità di riconoscere attraverso il registro della esagerazione espressionista insita nelle mie storie il giusto grado di criticità e complessità di ciò che lo circonda. Racconto di microstorie criminali che interessano uno scarno gruppo di personaggi miserabili, ma per mezzo di essi quello che faccio (che cerco di fare) è indicare a chi legge una direzione sulla quale fermarsi a discutere di Male e Futuro. E di potere, soprattutto. Ogni mio libro è imperniato a ben vedere su una idea di potere e sull’incapacità di vedere oltre il bieco esercizio di esso. Politici, mafiosi e poveracci che popolano i miei romanzi in fondo cercano affannosamente di contare qualcosa, di manipolare gli altri per meri scopi individuali, ma sono tutti così meschinamente ripiegati su una visione individualistica che alla fine non fanno che darsi la zappa sui piedi e perdere, sconfitti dalla vita, perché non esiste alcun potere duraturo se non lo si innesta su una idea di collettività, di costruzione del domani.

Cosa intende dirci l’umanità dolente dei suoi personaggi?

Non lo so e non credo di volerlo sapere, nel senso che non studio a tavolino il “messaggio” di cui i miei personaggi si fanno latori. L’intera mia “prospettiva letteraria” (lo so, è una definizione grossa, ma permettetemela per semplificare) nasce da una commistione di fattori che hanno interessato la mia formazione di scrittore: anzitutto la predilezione pressoché sconfinata per il cinema di Sergio Leone e la sua declinazione della Frontiera Americana in chiave tutta italica, ma soprattutto per i modelli narrativi di riferimento che sono principalmente quelli del Southern-Gothic: un genere letterario che annovera tra i suoi padri fondatori personaggi del calibro di William Faulkner e Erskine Caldwell nonché l’immensa Flannery O’Connor. Poi c’è l’amore per la mia terra, la Puglia, una passione indomita e conflittuale che mi spinge a rappresentarla come il crogiolo di ogni peccato ma anche al tempo stesso come un paradiso mozzafiato, unico e irraggiungibile. Su questa mescolanza di suggestioni s’innesta poi il lavoro sulla lingua, la “mia” lingua, che è fatta di variazioni auliche e di vernacolo, di puro spirito pulp e afflato lirico e di una costante, faticosissima ricerca della “parola perfetta” (che naturalmente non arriverà mai). Ciò che questa commistione di cose finisce per comunicare al lettore è una mia preoccupazione sino a un certo punto, perché ritengo che il ruolo di chi si immerge nelle pagine di un autore non debba essere passivo: tra me e lui vi è una complicità intrinseca, e le mie parole devono suscitargli sentimenti sinceri, anche contrastanti: non è insolito che alcuni lettori si indignino trovando una rappresentazione che non riconoscono del “proprio” Sud, e questo va bene, perché l’arte deve creare dibattito, scombussolare le certezze: è da questa tensione, secondo me, che nasce la vera speranza!