“La scomparsa delle lucciole” in Basilicata

Dai predatori dell’industria selvaggia allo svuotamento delle ricchezze e dei valori

“Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato…)”

Pierpaolo Pasolini usa questa metafora per spiegare il vuoto di potere che caratterizza il Paese negli anni 60 e il salto antropologico della società italiana. Un attacco frontale alla Dc, ma anche una critica feroce alla sinistra che non si accorge del mutamento in atto. “L’industrializzazione degli anni Settanta e il comportamento coatto del potere dei consumi ha realizzato una ‘mutazione’ profonda, decisiva ricreando e deformando la ‘coscienza’ del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a ‘tempi nuovi’, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche”. (Pasolini, 1975)

“La morte delle lucciole” era una provocazione politica ben chiara e intenzionale. Pasolini si lamentava poeticamente che non ci fossero più le lucciole, ma insieme accusava la nostra classe dirigente di aver promosso un certo modello di sviluppo, di aver organizzato in un certo modo la nostra vita, di avere inquinato le nostre campagne e le nostre città. E insieme vedeva la sparizione di tanti altri fatti sociali, popolari: certe culture, certe possibilità di intervento democratico, la vita dei paesi e delle province brutalmente violentata dai modelli del centro” (Paolo Volponi).

Ebbene, è inutile dire che Pasolini aveva previsto e anticipato il peggio: il dominio dell’ideologia neoliberista fondato sul consumismo di massa, sulla deculturazione di massa, sulla spoliticizzazione dell’azione sociale.

La scomparsa delle lucciole in Basilicata*

In Basilicata quando sono scomparse le lucciole? Negli stessi anni cui si riferisce Pasolini. Arriva l’ubriacatura dell’industrializzazione attraverso la petrolchimica a Pisticci, a Ferrandina, a Tito. A che cosa è servita l’Enichem a Pisticci? A quei tempi dissero: “serve al Paese, è un altro passo verso l’industrializzazione per una Basilicata moderna”. Soprattutto serve a dare lavoro. Sono morti in 150, tutti avvelenati da quel mostro chimico. Hanno lavorato, sì, ma molti di loro sono finiti al creatore. Al cimitero sono finiti anche terre, fiumi, aria, vento e sole.

Il deserto intorno, scenari insoliti per una Regione che avrebbe dovuto guardare al futuro dalla prospettiva opposta alla tendenza industrialista e al pensiero economico di quegli anni. Ma eravamo poveri, gli intellettuali scarseggiavano e quelli che c’erano, in maggioranza si occupavano di poesia e storia locale. Bontà loro. I politici, figli di quella stagione, erano felici di raccomandare operai a morire, per ottenere i voti utili a rimanere in sella per decenni.

Sulla strada dell’industrializzazione senz’anima abbiamo perso molto del nostro futuro. Eppure l’abbiamo inseguita fino ai giorni nostri. Sider Potenza, Chimica a Tito, Fiat a Melfi, Eni, Total e Shell, ovunque. Siamo stati capaci di svalutare molti degli asset di sviluppo, svendendoli ai mercanti d’affari. La storia economica di questi decenni ci insegna che nulla è cambiato rispetto al gap di “sviluppo” tra noi e le altre regioni europee più avanzate. Anzi, in molti settori il divario è cresciuto. L’aver voluto rincorrere, negli anni 60 e 70 modelli di “altri”, ci ha restituito desolazione, miseria, distruzione. Ma erano i modelli dell’Italia di allora e la Basilicata era ed è una regione italiana. Ma lo sforzo di tentare una diversità era possibile e oggi, seppure in misura ridotta, è ancora possibile.

Quelle politiche hanno praticamente dimezzato i migliori asset che avevamo sui quali costruire un’identità socio-economica della Basilicata e conseguentemente sentieri appropriati di sviluppo. Oggi stiamo continuando a dissipare il nostro patrimonio specifico, caratteristico, a vantaggio di disegni predatori che fanno riferimento a interessi incompatibili con il nostro futuro.

Dissipiamo acqua, boschi, aria, coltivazioni tipiche, bellezze naturali, risorse culturali e antropologiche, specificità agro alimentari, per causa di politiche miopi e piegate a deleterie illusioni. Per causa di politiche mediocri, affaristiche, asservite a prospettive egoistiche di poteri senza scrupoli. Eppure l’acqua è un nostro patrimonio inestimabile, ma la regaliamo a petrolieri.  Se continueremo a cucire addosso ai nostri territori vestiti ridicoli, magari alla moda, non avremo futuro.

La politica, lo svuotamento e il tempo perso

I nostri paesi – periferie centrali della regione – si sono svuotati di persone, soprattutto giovani. E mentre si svuotavano di persone perdevano la loro ricchezza di valori. Quei paesi si sono svuotati di valori. Uno svuotamento che ha quasi distrutto il senso della dignità.

Ed è stata la politica ad assumersi la responsabilità di questo svuotamento. E mentre, negli anni successivi, si aprono le stagioni dei restauri, dei recuperi urbanistici, della valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, architettonico, dei borghi e così via, si perde di vista l’essenza dei valori veri. Si recuperano e si valorizzano le cose, non le persone. I muri, non i valori, il denaro, non la dignità. E mentre negli anni successivi si apre la stagione dell’industrializzazione esogena – fallimentare – devastatrice, dalla liquichimica al petrolio, si perdono di vista le ricchezze endogene: dal patrimonio naturalistico al patrimonio antropologico, culturale. L’acqua, il vento e il sole finiscono per diventare mezzi di produzione nelle mani di un’industria predatoria. Insomma il mondo contadino non transita nella modernità, non diventa radici per il futuro, ma viene travolto da un cambiamento che lo esclude, viene praticamente distrutto, sacrificato a un “progresso” distopico. C’è stata un’evacuazione pianificata dei valori dai loro luoghi naturali.

Lo spopolamento di questi anni è anche spopolamento di ricchezze e di valori. E così la politica e la falsa modernità, ci hanno portato a vedere tutte le cose con un prezzo, senza dignità. E dunque anche il tempo e il suo scorrere lo abbiamo percepito come kronos: misurato dalle lancette, quantificabile, che passa e richiama l’attesa. Mentre l’egemonia del capitale, il dominio della corruzione, degli interessi egoistici, della cultura del denaro e della falsa modernità si allargavano inesorabilmente. Proprio quando la dignità e i valori si sarebbero dovuti innescare nel kairos: tempo in quanto successione infinita di momenti e circostanze potenzialmente rivoluzionarie, tempo come occasione, potenza, cambiamento. Ed è questo il tempo che abbiamo perso. E allora siamo passati dagli abbracci alle strette di mano. Abbiamo imparato a stringere le mani per fare patti e disimparato ad abbracciarci per fare comunanza. Tutto questo mentre le lucciole morivano, fino all’ultima.

*Alcuni passi di questo articolo sono tratti da altri scritti dello stesso autore, già pubblicati su questo giornale e rinvenibili nell’archivio degli “approfondimenti” o degli “editoriali”.