Tamponi in Basilicata. Figli, figliastri, giocolieri e saltimbanchi. La verità che a molti non piace

Ecco i casi "sospetti" che fanno pensare a presunte corsie preferenziali nella somministrazione dei test

Oggi avremmo voluto scrivere dell’ennesimo errore nel comunicato stampa della Task Force regionale nella diffusione dei dati sui contagiati da coronavirus in Basilicata. Abbiamo soprasseduto, perché quei dati, pur errati, che ogni giorno vengono comunicati e poi corretti mettendo a dura prova il nostro lavoro, ci sembrano poca cosa di fronte alla morte di chi ha dovuto attendere due settimane per un tampone.

Sarà difficile dimenticare le ultime parole che Antonio Nicastro ci ha detto al telefono quando lo abbiamo chiamato per farci raccontare la sua vicenda. Parole spezzate dalla tosse, che facevano fatica ad uscire a causa del respiro affannato.  Non mettete il mio nome, non voglio dare fastidio in questa fase di emergenza”. E noi abbiamo mantenuto la promessa a metà.  Nell’articolo, scritto per raccontare la sua vicenda, lo abbiamo chiamato solo Antonio.  Del resto il cognome non contava in quel momento, contava scrivere che una persona era stata lasciata sola, con la sua famiglia e il suo medico di base, a combattere contro sintomi fin troppo evidenti per essere sottovalutati anche al telefono.

Purtroppo Antonio non è il solo ad aver dovuto “supplicare” un tampone. Palmiro Parisi, 54enne potentino, lo ha ottenuto quando forse era troppo tardi. Dopo il ricovero, la figlia Maria, aveva raccontato quello che aveva passato il papà, la febbre e gli altri sintomi. Una storia purtroppo molto simile a quella di Antonio, anche nel tragico epilogo. Lasciati in balìa del nulla fino a quando le loro vite dimenticate non sono divenute oggetto di cronaca. 

Ma questo, evidentemente non è bastato a far sì che, da subito, chi gestisce l’emergenza sanitaria si attivasse per comprendere dove si fosse inceppata la macchina. No. Non è bastato, all’assessore Leone, a cui avevamo chiesto di spiegare quelle che apparivano come “corsie preferenziali“, non è bastato al presidente Bardi che certamente avrà letto gli articoli pubblicati da noi e da altre testate, non è bastato al coordinatore della Task Force, a cui pure era stato fatto presente tutto ciò

Le risposte, pur annunciate non sono mai arrivate. Sono arrivati invece morte e dolore per quello che si poteva fare e non è stato fatto. 

Per questo le riformuliamo con più precisione andando ad analizzare alcuni casi specifici. E chissà che il nostro lavoro non torni utile al presidente Bardi per le sue “indagini interne”.

Il giorno 21 marzo il potentino Gianluigi Laguardia comunicava sul suo profilo facebook di aver fatto il tampone ed essere risultato positivo. La cosa, oltre che dispiacerci, ci aveva fatto riflettere alla luce di quanto invece accaduto ad Antonio Nicastro. Laguardia, noto per le sue dirette facebook, fino a pochi giorni prima era apparso in buone condizioni di salute e aveva intervistato, tra gli altri, il presidente Vito Bardi, il coordinatore della Task Force regionale, Ernesto Esposito e l’assessore alla Protezione civile, Donatella Merra. 

Lecito chiedersi dunque se l’uomo avesse sintomi o no. Perché nel primo caso, sarebbe strano che se ne fosse andato in giro a fare interviste violando, tra le altre cose, le prescrizioni che impongono di  uscire solo per comprovate ragioni di lavoro. Laguardia, che è giornalista pubblicista, non ci risulta avesse alle spalle una testata giornalistica per conto della quale effettuare il suo lavoro, così come non ci risulta facesse il free lance per vendere quindi a qualche testata i suoi servizi. Quello che ci risulta è il suo hobby “giornalistico” su facebook, oltre che su un canale Youtube che, non può essere considerata una testata giornalista non riportando iscrizione al Registro della Stampa del Tribunale.

Nel secondo caso, e cioè che non avesse sintomi, allora qualcuno deve spiegare la celerità del suo tampone e di quelli effettuati ai suoi familiari.  E’ lo stesso Laguardia che ne dà notizia sulla sua pagina facebook annunciando, il 24 marzo, che i suoi contatti diretti sono risultati tutti negativi. Specificando che ai suoi familiari, padre, fratello, cognata e nipote è stato fatto il tampone, giustamente. Quello che non torna giusto è il tempo che altri hanno dovuto attendere. 

A questo punto torniamo ad Antonio Nicastro. Dopo due settimane di attesa, il 20 marzo, ancora non gli è stato fatto il tampone che gli verrà effettuato solo dopo la pubblicazione della sua denuncia sul nostro e altri giornali, e più precisamente dopo il ricovero, il 22 marzo, in ospedale. Torniamo anche a Palmiro Parisi, dopo giorni di febbre e tosse, la corsa, tardiva, in ospedale.

Ed ancora c’è il caso di un giovane di Potenza, che era stato a contatto con alcuni casi positiviIl ragazzo, il 26 marzo racconta al nostro giornale che lavora, o meglio lavorava, in un locale di Potenza, dove un’intera famiglia, (i propietari) è risultata contagiata dal Covid-19 il 10 marzo scorso. Riferisce di avere sintomi, da 12 giorni “febbre,  e un tosse che mi spezza in due, ma niente” e ancora “nessuno vuole farmi il tampone”.

A lui avrebbero detto “ce ne sono pochi (di tamponi ndr)” , “non sei grave”, “c’è da aspettare”. Queste le risposte avute da “ogni ente che ho chiamato e richiamato”Lo stesso giorno, e dopo la pubblicazione del nostro articolo sul suo caso, il giovane viene contattato dalla Task Force, la persona al telefono gli dice: “I tempi sono lunghi” e “stiamo  monitorando i casi come il tuo”. Il 27 marzo finalmente il tampone. Oggi, 3 aprile, il ragazzo, scosso dalla morte di Antonio Nicastro, ci scrive questo:  Oggi è una settimana esatta da quando mi è stato fatto il tampone e nessuno mi chiama per il risultato mio e di mia madre. Nemmeno qualcuno che prima mi chiamava per accertarsi delle condizioni mie e di come stessi, ancora una volta abbandonato, ancora una volta non capisco come sia possibile, ancora una volta costretto a denunciare queste circostanze, fortunatamente io sto bene e non sono stato grave, ma con queste vicende come si fa? Non capiscono che ci vanno di mezzo vite umane e dolore di famiglie”.

A Simone si aggiunge un altro ragazzo che dopo aver atteso giorni e giorni per un tampone, finalmente lo ottiene il 25 marzo. Dopo nove giorni, e precisamente oggi 3 aprile, ha saputo finalmente di essere negativo e potrà prendere farmaci per quella che è probabilmente “solo una bronchite”. Di casi come questi ce ne sono altri, che hanno fatto meno scalpore. Ci sono poi le “vocine interne” ad ambienti sanitari che riferiscono di tamponi celeri effettuati ad “amici degli amici”, compari e via dicendo. Ce n’è abbastanza, insomma per rendersi conto che la “filiera corta” è l’unica cosa che, in questa fase di emergenza, pare abbia funzionato benissimo. 

Ci sono però persone morte e persone recluse in casa in attesa di sapere se sono positive o meno al virus con tutto quello che può comportare vivere in un limbo del genere. 

E poi c’è il presidente Bardi con la sua truppa che dovrebbe cominciare a spiegare, a chi oggi piange i propri cari, perché loro hanno dovuto attendere tanto per il tampone, pur avendo sintomi così evidenti, e altri no.

P.s. A chi dovesse sentirsi leso da quanto fin qui scritto ricordiamo che i giornalisti e le giornaliste fanno domande e raccontano fatti.